Recensione Isola 10 (2009)

Nonostante il rigore della messa in scena e le evidenti colpe sul piano della sceneggiatura, riesce comunque a passare lo sdegno di cui si fa portatore l'opera di Littin e il disagio di un periodo che ha fatto da spartiacque nella storia dei rapporti internazionali degli ultimi decenni dello scorso secolo.

Quel campo della vergogna

Nel 1973, l'anno del colpo di stato in Cile che rovesciò il governo di Salvador Allende sancendo l'inizio della dittatura di Augusto Pinochet, il regista Miguel Littin trovò rifugio in Messico. Nel suo paese d'origine tornò clandestinamente dopo 12 anni per girare un film di denuncia sulla sua realtà politica, un'esperienza importante che ha ispirato lo scrittore Gabriel García Márquez per il suo romanzo Le avventure di Miguel Littin, clandestino in Cile. Se l'esilio di Littin trovò tutto sommato un dignitoso decorso in Messico, decisamente più tormentato fu quello degli oppositori politici che la Giunta Militare salita al potere in Cile decise di spedire in un campo di concentramento sull'isola di Dawson, situata nell'estremo Sud, un luogo inospitale dal clima rigido. Tra questi anche molti degli esponenti del governo Allende, costretti ai lavori forzati e vittima di torture e restrizioni per la sola colpa di essere filo-marxisti. La vergognosa vicenda trova ora voce nel nuovo lavoro di Miguel Littin che torna a volgere lo sguardo ad un periodo che ha cambiato per sempre il volto del suo paese.

Ispirato al libro autobiografico di Sergio Bitar, Ministro delle Attività Minerarie al momento del golpe, Dawson Island 10 racconta il periodo della prigionia degli uomini di Allende sulla gelida isola, senza lasciarsi andare alla rabbia, ma mettendo insieme con incedere lento una serie di ricordi sfilacciati ai quali affidare il commento sugli ignobili avvenimenti di quei giorni, su un golpe appoggiato dagli Stati Uniti di Nixon in piena Guerra Fredda per stroncare l'ascesa del socialismo. Littin entra in questo campo di concentramento con fin troppa discrezione, tratteggiando in maniera stranamente fragile le relazioni tra questi civili trasformati in prigionieri, privati della loro identità, e i loro rapporti con i carcerieri. Il freddo del luogo (il vento, la pioggia, la neve sono elementi sempre presenti) si attacca alla stessa pellicola, portata avanti con un freno a mano nell'intenzione di guadagnare un respiro poetico, evitando lo spettacolo della disperazione a favore di un più nobile invito alla riflessione, ma il tessuto narrativo si rivela sfrangiato oltre il limite e l'interesse dello spettatore va via via decadendo.
L'impressione è che siano gli stessi detenuti protagonisti del film a rischiare di morire di noia, perché in fondo nel campo della vergogna non accade poi molto, tanto è vero che per passare il tempo si arriva addirittura a ristrutturare una chiesa. La regia poi non sa fornire un deciso contributo all'opera, limitandosi a mettere insieme sequenze "preoccupate" girate con camera a mano, altre in bianco e nero che scimmiottano il materiale di repertorio e uno stile classico che fa incontrare l'ambiente ostile con i corpi dei prigionieri destinati a un rapido logorio. Nonostante il rigore della messa in scena e le evidenti colpe sul piano della sceneggiatura, riesce comunque a passare lo sdegno di cui si fa portatore l'opera e il disagio di un periodo che ha fatto da spartiacque nella storia dei rapporti internazionali degli ultimi decenni dello scorso secolo. E alcune scene poi colpiscono e restano, come quella toccante di Cielito Lindo o l'epica rincorsa di un figlio dietro il camion che sta riportando il padre al campo perché troppo malato per poter proseguire nel viaggio della flebile speranza. Un film onesto, sincero, forse fin troppo realistico, ma il mezzo cinema se limitato all'intenzione documentaristica perde molto del suo fascino.