Anche senza essere assidui frequentatori di sale cinematografiche, teatri o semplicemente del salotto di casa, è difficile non essersi imbattuti nei lavori di Pivio & De Scalzi. La discografia del duo genovese conta, dagli anni Novanta in avanti, numerosissime partecipazioni a film, serie televisive e produzioni teatrali: un'eterogeneità di esperienze che rispecchia il gusto della coppia per i più diversi generi musicali, dall'etnico alla new wave, dal prog all'hip hop, e per la ricerca di soluzioni dall'impronta mai banale, che sappiano rendere conto della natura più autentica di una storia, quella che viene percepita ancora prima della sua esplicitazione estetica o verbale. In uscita al Festival Internazionale del Film di Roma con Razzabastarda, esordio alla regia cinematografica di Alessandro Gassman, che riprende la vicenda già diretta e interpretata con successo a teatro in Roman e il suo cucciolo, e nelle sale con Il peggior Natale della mia vita di Alessandro Genovesi, Pivio, ovvero Roberto Pischiutta, ripercorre con noi il proprio percorso artistico e lavorativo: dall'esordio con Ozpetek, alle proficue collaborazioni con i Manetti e Gassman, ai progetti per il futuro, attraversando il passato e le sue suggestioni, e guardando con un pizzico di scetticismo al futuro della scena musicale italiana e non.
Come ti sei avvicinato alla musica e come è nato il tuo sodalizio con Aldo De Scalzi?Pivio: Io in realtà mi sono sempre occupato di musica, fin da quando ero piccolo. Tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta militavo in un gruppo, che avevo fondato con degli amici, a Genova, che si chiamava Scortilla, ed era un gruppo di chiara derivazione new wave. Aldo, nel frattempo, aveva già avuto diverse occasioni discografiche con il suo gruppo progressive, i Picchio dal pozzo. Di fatto Aldo, con il fratello Vittorio, aveva messo in piedi uno studio a Genova, poi diventato una sorta di studio "storico", ovvero lo Studio G, e quello è stato un punto di incontro per tanti musicisti genovesi. Quindi, frequentando gli stessi luoghi, abbiamo avuto modo di incontrarci. La nostra prima vera collaborazione nasce con un singolo degli Scortilla, quindi del mio gruppo, che uscirà, dopo qualche tempo e parecchie sollecitazioni, nel 1984, che si chiamava Fahrenheit 451. Aldo aveva seguito la produzione artistica di questa cosa, ma il primo lavoro fatto veramente insieme, e non si tratta ancora di un lavoro cinematografico, risale al 1990 e si tratta di un disco, Maccaia. Il disco contiene già molti spunti che poi avremmo ripreso negli anni, una sorta di commistione tra musica chiamiamola "alta" e quella tradizionale. Questa nostra collaborazione continuerà nel tempo, e tra il 1995 e il 1996 facciamo uscire un disco, a nome Trancendental, un gruppo ipotetico, in quanto sempre formato da me e da Aldo, con in più un po' di amici, e questo disco arriva alle orecchie prima di Marco Risi, produttore de Il bagno turco, e, in un secondo momento, grazie alla sua allora compagna Francesca D'Aloja, a Ferzan Ozpetek, che ci coinvolge in una folle corsa verso la nostra prima opera cinematografica, che abbiamo realizzato in dodici giorni.
Come è stato, quindi, avere questo incredibile successo alla prima esperienza cinematografica?
Pivio: Probabilmente si è trattato di arrivare al momento giusto con l'offerta giusta. Il film in effetti sarebbe dovuto uscire inizialmente al Festival di Venezia, e questo era il motivo per cui stavamo correndo come dei pazzi per realizzare la nostra parte, ma poi non è stato preso: invece verrà poi preso, molti mesi dopo, al Festival di Cannes, e quella è stata una vetrina notevole. Io tra l'altro all'epoca facevo ancora l'ingegnere e lavoravo per El Paìs, e l'emozione che ho ricevuto stando su quel palco, ricevendo così tanti applausi, - perché in effetti il film è andato molto bene, era presente nella collana della Quinzaine - è stata talmente forte che io due giorni dopo ho dato le dimissioni. E' stata una specie di salto nel nulla, ma probabilmente i tempi erano maturi per fare un cambio drastico nella mia vita, e Aldo in questo senso è stato un grande compagno, perché mi ha sollecitato a farlo. Noi, prima che compositori, siamo amici, ed è un'amicizia storica, sono trent'anni che ci frequentiamo.
Pivio: Lavorare in coppia significa lavorare a stretto contatto con una persona. Di fatto entrambi portiamo i nostri contributi, chiaramente diversi, che danno più forza al nostro progetto. In effetti quest'anno io ho firmato un film da solo, Paura dei Manetti Bros, perché Aldo era particolarmente impegnato, e il risultato è sicuramente molto personale. Se l'avessimo fatto insieme, sarebbe risultato qualcosa di decisamente diverso. Tra i due, lui è la persona più preparata dal punto di vista musicale, ha un background molto più forte del mio. Io sono, diciamo, un "apprendista stregone", e quindi questo connubio tra la sua maggiore capacità musicale e la mia follia porta a risultati che spero siano interessanti. Siamo contenti così, ci piace lavorare insieme e ancora adesso lo facciamo con continuità. Io ho sempre amato il gioco di squadra, anche quando mi occupavo di sport agonistico: ho sempre preferito giocare in sport dove c'era la possibilità di dare un contributo collettivo, piuttosto che pensare in termini solisti.
In generale qual è il vostro metodo di lavoro? Tendete all'indipendenza o vi interfacciate spesso con i collaboratori?
Pivio: Nel mondo del cinema, così come quando si lavora a una serie televisiva, perché non c'è molta differenza, necessariamente si deve pensare in termini collettivi, volenti o nolenti. Il nostro referente in primo luogo è sempre il regista, anche se poi la figura del montatore diventa anch'essa molto importante. In effetti il lavoro su una colonna sonora è un lavoro di continuo feedback di proposte e aggiornamenti, è raro che ci sia uno sviluppo lineare. Il regista tende a cercare di dare la sua impressione, e darla anche sulle nostre musiche. Noi abbiamo sempre desiderato non essere chiusi a un modello specifico, e infatti nella nostra cinematografia ci sono musiche molto diverse tra di loro: questo ci ha sempre permesso di seguire l'onda, non solo di fare proposte che nascessero esclusivamente da noi. Non è detto che non sia possibile ottenere dei buoni risultati da pulsioni e pressioni che vengono dal regista o dal montatore stesso.
Non ci sono quindi grosse differenze tra il lavoro per il cinema e quello per la televisione? Per quanto riguarda il teatro, invece, l'approccio è di un altro genere?
Pivio: La grossa differenza avviene quando si parla di serialità. Lavorare per una serie tv - e noi ne abbiamo fatte anche alcune di successo, come Distretto di Polizia - ti porta a creare un catalogo musicale, più che un lavoro definito su scena. Per Distretto di Polizia eravamo partiti con un approccio tipicamente cinematografico, ovvero lavorando scena per scena, praticamente sulle prime quattro serie. Nel frattempo si era creata tutta una serie di momenti, di temi musicali che avremmo potuto utilizzare anche per le seguenti serie, e piano piano abbiamo abbandonato questa metodologia del lavorare frame by frame per concentrarci sulle macrostrutture, su temi che potessero essere usati per scene congruenti. Questo è un modo di lavorare sensibilmente diverso da come si lavora per il cinema, dove invece c'è un rapporto molto stretto con l'immagine, e non può che essere così. Nel teatro è ancora diverso, perché, non potendo contare su un'esecuzione degli attori che sia sempre uguale a se stessa, bisogna lavorare in maniera più aperta, senza troppi vincoli, senza basarsi su una scena definita. Quindi si tratta quasi sempre di musiche che permettano di essere concluse in qualsiasi momento della recitazione, anche se devo dire che i nostri esperimenti più riusciti in teatro sono quelli con Alessandro Gassman.
Pivio: Anche nel caso di Alessadro Gassman il nostro rapporto è nato con Il bagno turco. Lui era l'attore protagonista ed è lì che ci siamo conosciuti, e in quell'occasione ho avuto anche l'opportunità di conoscere suo padre, che era ancora in vita. Ci siamo evidentemente piaciuti subito, perché già la prima volta in cui lui è apparso in teatro, per un lavoro particolarmente importante, non ancora come regista, che era K2 di Edoardo Erba, aveva fortemente voluto la nostra presenza nello spettacolo, che racconta la storia di due scalatori sulle cime dell'Himalaya. Invece Alessandro arriva alla regia teatrale con La forza dell'abitudine, un testo molto stravagante ambientato del mondo del circo. L'idea, che nasce da un testo di Thomas Berhnard, è incentrata sul direttore di un circo, che impone ai suoi collaboratori di suonare il Quintetto della Trota, non riuscendo mai ad arrivare a completare un'esecuzione. Chiaramente è molto surreale, ma Thomas Bernhard è sempre molto surreale. E quella è stata la nostra prima occasione di collaborare: un'occasione necessariamente circense, in cui abbiamo cercato di inserire molti aspetti onirici. Appunto, si trattava di elementi musicali necessariamente aperti. Poi, man mano, l'esperienza di Alessandro è aumentata e, di fatto, ogni suo spettacolo è uno spettacolo a orologeria: gli attori sono talmente precisi che riescono a mantenere una sorta di coerenza, anche temporale, che ci ha portato ad andare oltre a questa "libertà" di preparazione dei brani, arrivando a delle partiture molto puntuali. Il che, in effetti, è una cosa un po' particolare per quel che riguarda il teatro, perché appunto, solitamente, i tempi si possono allargare e comprimere, a seconda di come è la recitazione, e si deve tenere conto di questo, in modo che la musica possa essere sfumata in qualsiasi momento o riprodotta per più tempo di quello prestabilito. Con Alessandro siamo arrivati ad una partitura molto più cinematografica, ma d'altronde i suoi spettacoli sono già a teatro molto cinematografici. E Roman e il suo cucciolo, che è lo spettacolo da cui parte la scrittura di Razza bastarda, ne è un esempio molto esplicito.
Quali sono i vostri modelli di riferimento e i vostri autori preferiti, a cui magari guardate come esempio per il vostro lavoro?
Pivio: Sia io che Aldo siamo "musicofagi", ascoltiamo la musica più diversa possibile e ne ascoltiamo veramente tanta, e questo da sempre, da decine e decine di anni. Nel tempo si sono quindi accumulate tantissime esperienze di ascolto e moltissimi punti di riferimento. Diciamo che, personalmente, ci sono alcuni personaggi che ancora ascolto con molta attenzione, non necessariamente legati al mondo della musica per il cinema. Ad esempio, un disco che ritengo fondamentale è My Life in the Bush of Ghosts di Brian Eno e David Byrne. Peraltro, poi, gli stessi Eno e Byrne hanno avuto tantissime partecipazioni a film. Io vengo dal punk e dalla new wave ed è un amore che non ho mai abbandonato, e quando possibile riporto questa mia "furia giovanile" nei miei lavori. Cinematograficamente trovo molto interessanti molti lavori di Ryuichi Sakamoto: sicuramente Il tè nel deserto, Furyo, fino ad arrivare a Love is the Devil, che è la storia di Francis Bacon, interpretato in quell'occasione da Derek Jacobi. È un film fantastico, molto visionario, e Sakamoto in questo caso non è il Sakamoto che tutti conoscono: è un Sakamoto distuttivo, che basa la sua musica sull'aspetto sonoro, più che su quello melodico e armonico. In effetti questo è un argomento che comunque ci interessa: l'aspetto del suono nel film per noi è fondamentale, prima ancora di quello della composizione melodica, perché ogni film ha un suo suono, che devi percepire e rincorrere, e adattarti a lui. Molto spesso le prime discussioni che facciamo con il regista tendono proprio alla ricerca di questa caratteristica sonora che deve in qualche modo contraddistinguere il film, e che può essere uno strumento musicale, ma non necessariamente: potrebbe anche essere un rumore, un suono animale. Come nel caso, ad esempio, del film Lupo Mannaro, fatto con Antonio Tibaldi: è un film che nasce in bilico tra cinema e televisione, e poi è rimasto legato al mondo televisivo, andando peraltro in onda dopo molti anni. Lì la nostra ricerca è partita proprio da suoni molto graffianti, bestiali, animaleschi, e le nostre prime composizioni sono nate da questo spunto, per cui ci sono diversi brani in cui utilizziamo campionamenti, poi riportati in qualche modo a una sensibilità più musicale, di suoni di balene, e del suono che il cobra fa con la propria coda. Il film si basa sul romanzo omonimo, scritto da Lucarelli, ed è una storia animalesca, e quindi quello spunto è stato importantissimo per la colonna sonora, che ha poi lasciato spazio a un'orchestrazione più classica, per quando comunque abbiamo usato poca orchestra in favore di strumenti tradizionali indiani. Ma mantenendo sempre questa commistione di suoni dal mondo animale, e devo dire che il risultato è interessante.
Pivio: Qui dovrei rispondere "ogni scarrafone è bello a mamma sua": quando lavoriamo a un film siamo completamente concentrati e cerchiamo ogni volta di fare la nostra opera migliore. Inevitabilmente ci sono film che restano più nel cuore di altri. Il primo amore non si scorda mai: Il bagno turco resta una delle nostre opere più sentite, anche perché una delle più improvvise per il modo in cui è stata realizzata. Ma non è l'unico: siamo molto affezionati al lavoro che stiamo facendo da molto tempo con i Manetti. Tra l'altro, tra poco partirà un nuovo film, girato a Napoli e ambientato nel mondo dei cantanti melodici, con cui noi dovremo in qualche modo convivere in questa avventura. Siamo molto uniti, proprio dal punto di vista sentimentale, a El Alamein - la linea del fuoco, un film di Enzo Monteleone, con cui peraltro abbiamo lavorato anche molte altre volte, ad esempio per la serie televisiva Walter Chiari - fino all'ultima risata. El Alamein è un film molto toccante: nasce da un documentario che aveva girato lo stesso Enzo, intervistando i pochi sopravvissuti a quella terribile battaglia. Quello rimane uno dei pochi film ambientati in uno scenario di guerra e prodotti in Italia che abbiano veramente un senso. Teniamo nel cuore anche Complici del silenzio di Stefano Incerti, film che magari non ha avuto un grande riscontro al botteghino, ma per il quale abbiamo trovato una linea musicale molto interessante. Quello, per esempio, è stato un altro approccio lavorativo: siamo arrivati al film, montato da Cecilia Zanuso, quando esisteva già una colonna sonora più o meno realizzata, con materiale proveniente da altri film. Spesso ci succede di dover lavorare su film dove troviamo già una linea guida, o presunta tale, imposta dal regista. Il problema è che quando un regista e un montatore lavorano con musiche di repertorio, per aiutarsi a mantenere anche una sorta di sviluppo e ritmo, tendono un po' a innamorarsi delle cose che hanno montato, che però provengono da mondi sensibilmente diversi, anche dal punto di vista produttivo, rispetto a quelli in cui siamo coinvolti noi. Ci sono stati un paio d'anni in cui mi sono ritrovato a lavorare su un film su cui era stata montata magicamente la colonna sonora de Il gladiatore. Quando ti devi scontrare e discutere su un impianto sonoro avendo come punto di riferimento Il gladiatore, che ha una grandissima colonna sonora, realizzata con mezzi spaventosi e tanto tempo a disposizione, da Hans Zimmer con la collaborazione di Lisa Gerrard, a strettissimo contatto con il montatore, Pietro Scalia, è dura: si capisce che quello è uno scenario che non rispecchia esattamente il nostro. Lo scenario per la produzione di un film italiano è sostanzialmente povero, innanzi tutto: non abbiamo mai a che fare con grossi budget, e spesso abbiamo anche vincoli di realizzazione nel tempo molto stretti. I dodici giorni de Il bagno turco sono una situazione in cui abbiamo lavorato anche altre volte, ricordo un film che abbiamo fatto addirittura in cinque giorni, ovvero L'odore della notte di Claudio Caligari. Poi ci sono casi in cui abbiamo molto più tempo, circa due mesi per realizzare la colonna sonora, e qui si parla di tempistiche molto più ragionevoli. In Complici del silenzio c'era un film che veniva utilizzato in maniera continua, che era Bibo no Aozora di Ryuichi Sakamoto, ed è uno dei brani più belli per me mai scritti nella storia della musica. E' un brano che nasce per solo pianoforte, ma che è stato realizzato tante volte in maniera diversa, per poi diventare il tema principale di Babel, portando Gustavo Santaolalla - e questa è una mia sensazione, che voglio esprimere con forza - a vincere l'Oscar: secondo me l'ha vinto proprio perché nel film c'era quel brano. Quando abbiamo sentito di questo film, che parla una storia di desaparecidos, e di un giornalista italiano che si trova immerso nella realtà dell'Argentina del 1978, inizialmente per commentare i mondiali di calcio, salvo poi ritrovarsi in tutt'altro ambiente, ci siamo trovati davanti a una sfida praticamente impossibile. Però, evidentemente, le sfide ci piacciono, e, non so come mai, anche lì, magicamente, nel giro di pochi istanti abbiamo trovato un'alternativa che per me rimane uno dei momenti musicali più forti che abbiamo scritto nei nostri oltre cento film. Per quanto riguarda i vostri progetti futuri, cosa avete in cantiere oltre alla collaborazione con i Manetti?
Pivio: Dei Manetti se ne parla tra non molto: le riprese iniziano intorno al 20 novembre, e noi dovremmo entrare in gioco a gennaio. Tra poco verrà girato, a cavallo tra l'Italia e la Russia, anche l'esordio di Sergio Basso: io ho letto giusto ieri la sceneggiatura e dovremmo essere coinvolti anche in questo film, in parte prodotto anche dal Centro Sperimentale. E' un film molto onirico, molto magico, che parla di alcuni bambini in un contesto sportivo, ma il vero spunto è l'amore visto dal punto di vista dei bambini, e devo dire che è molto toccante. Abbiamo in uscita RazzaBastarda, o meglio, uscirà in realtà intorno a febbraio, distribuito da Moviemax. Abbiamo di nuovo picchiato parecchio duro, e il connubio artistico con Alessandro diventa ogni volta sempre più forte. Per l'occasione abbiamo anche scritto una canzone, quella dei titoli di coda, cantata da Francesco Renga che è anche autore del testo. In questi giorni stiamo lavorando al videoclip, girato sempre da Alessandro Gassman con la stessa tecnica con cui è stato girato il film, un bianco e nero molto forzato, molto contrastato: ci sono solo due scene a colori, che hanno un loro ben preciso motivo di essere. In uscita abbiamo, a giorni, Il peggior Natale della mia vita di Alessandro Genovesi, il sequel de La peggior settimana della mia vita: questo, se possibile, fa ancora più ridere. Ci sono dei momenti in cui io e Aldo dovevamo smettere di scrivere perché bloccati dalle risate. Abbiamo mantenuto la stessa linea musicale che avevamo adottato per il precedente, cioè una sorta di recupero della musica klezmer rivista e corretta dalle orecchie di un Django Reinhardt postumo: quindi grande spazio a chitarre e clarinetti. Nel film ci sono anche momenti musicali cantati su scena da Andrea Mingardi, che era anche presente nel film precedente e che qui dà un contributo musicale più forte perché dovrà cantare delle cover di Natale. E' veramente molto divertente.
Come vedi la scena musicale italiana contemporanea?
Pivio: Devo dire, e qui mi farò un po' di nemici, che l'eccessiva democraticizzazione della musica - ma questo è un discorso che esula dall'Italia - ha fatto si che in questo momento ci sia troppa musica. Riprendo un discorso che probabilmente avevo già affrontato tempo fa con Nicola Piovani: lui aveva fatto uscire un articolo in cui parlava del suo essere assediato da musica, molto spesso scadente, che ascolta dappertutto. Quando parlo di eccessiva democraticizzazione intendo dire che la tecnologia permette adesso sostanzialmente a chiunque di realizzare musica: con un computer e un microfono si possono creare tutti i mondi possibili, non è richiesta una particolare conoscenza musicale. Ma d'altronde io sono un autodidatta, quindi sposo questo mondo possibile. Però il risultato è che, come quando su una tavola fortemente imbandita si trovano troppi piatti, non ci si renda più conto di cosa sia buono e cosa non lo sia. Io ho la sensazione che in questo momento la proposta musicale, a livello internazionale e di conseguenza anche italiano, sia veramente troppo vasta, poco canalizzata, mal distribuita. Le major continuano a fare inutilmente il loro lavoro di major, continuando a spingere i propri prodotti, spesso non interessanti, anche perché nascono spesso dal basso, e continuando a mantenere un atteggiamento molto antico, pensando di poter influenzare il mercato. Dall'altra parte abbiamo invece una distribuzione, quella attraverso il web, che rischia di essere molto dispersiva. Quindi, il risultato è che sul territorio abbiamo sicuramente artisti interessantissimi, che però non riescono a trovare uno spazio distributivo che permetta loro di uscire dalla propria realtà puntuale, cosa che invece molti anni fa era possibile. Se penso alla musica prog nata negli anni Settanta in Italia, ricordo che aveva trovato un canale, anche attraverso le major, tale da permetterle di avere grande visibilità, infatti ancora adesso in Paesi come il Giappone, la Corea, gli stessi Stati Uniti, questi gruppi hanno tuttora un grandissimo successo. Lo stesso vale per le colonne sonore: non è un caso che quelle degli anni Settanta vengano molto stimate all'estero, e che ci siano registi che impazziscono per le nostre produzioni dell'epoca, Quentin Tarantino in primis. Continuano persino a essere fatte compilation di musica prodotta in quegli anni in Giappone. Ma non è che adesso si produca musica peggiore, ci sono, anzi, dei casi molto interessanti: il problema è una questione di distribuzione. O c'è troppo, e il troppo rischia di cancellare, nella sua magniloquenza, le poche cose interessanti, o quel poco che invece è molto forte non riesce a emergere. Perché, in effetti, in qualche modo le dinamiche distributive sono cambiate, grazie al web, ma, salvo casi realmente eclatanti, non si mai arriva a spazi più congeniali agli artisti, anche in termini di popolarità. I pochi esempi di successo che nascono dal web che ho potuto notare sono alcuni rapper. Io ho anche lavorato, a volte, con il mondo del rap e dell'hip hop per Paura 3D ho collaborato con Danno dei Colle der fomento e con Chef Ragù. Ho la sensazione che il troppo di cui parlavo prima porti poi anche a un appiattimento in termini di ricerca. Ultimamente molti dei successi che sento, rimanendo nel mondo dell'hip hop, non è che mi convincano più di tanto: mi sembra che ci sia una sorta di "assalto al fortino", dimenticando che ci sono anche altri fortini, magari più interessanti. Mi manca questo aspetto della ricerca musicale, che so che viene fatta, ma senza trovare gli spazi per esprimersi. Sento molto appiattimento, e questo appiattimento nasce anche dall'eccessiva produzione.