Alessandro Rossetto arriva al Lido con il suo primo lungometraggio di finzione dopo una nutrita esperienza come documentarista, Piccola Patria, inserito nella sezione Orizzonti alla settantesima edizione della Mostra del cinema. E' la storia di due ragazze, Luisa e Renata, e del loro desiderio di fuggire alla banalità di vite inserite in un contesto culturale, quello della provincia del Nord Est, che pensa solo al far soldi, senza sogni e colmo di rabbia. Un disagio che il regista descrive partendo dallo script dei suoi autori Caterina Serra e Maurizio Braucci senza dimenticare la sua origine documentaristica, e che ha raccontato in conferenza stampa a Venezia 2013.
Accanto a lui gli interpreti Maria Roveran, Roberta Da Soller, Vladimir Doda, Lucia Mascino, Mirko Artuso, Diego Ribon, Nicoletta Maragno ed il produttore Gianpaolo Smiraglia.
Il quadro che esce dal film è di assoluta desolazione e degradazione. Non c'è nessuna speranza? Alessandro Rossetto: La storia del film è stata concepita come una tragedia classica con un forte qui e ora ed un tentativo di stilizzazione di personaggi e vicende. Non abbiamo mai pensato che potesse essere una storia felice, fosse stato per me lo sarebbe stato anche di più, ma Caterina un po' mi ha frenato [scherza]. E' un racconto la cui chiave era molto tragica, però l'amore, anche se non vince, cerca di vincere. Ed il finale in definitiva rimane ambiguo e non sappiamo se andrà così male.
Il film si svolge nel nord est, un'area che a lungo abbiamo pensato fosse il motore anche economico dell'Italia, invece quello che vediamo è un territorio ferito, anche nella sua terra, come si vede dalle riprese dall'alto. Alessandro Rossetto: Sono cinematograficamente attratto dalle zone in cui campagna e città si toccano e faticano a toccarsi. Il triveneto ha una percentuale maggiore di situazioni di questo tipo e facilmente si può spiegare perchè si sia passati velocemente ad una cultura del lavoro industriale, arrivando da una cultura contadina. Lì i cambiamenti sono stati rapidissimi e forse in questa accelerazione si è creata anche una lacerazione. E questo è ricaduto anche sul territorio. Sapevamo che quel tipo di sguardo dal'alto avrebbe potuto restituire l'atmosfera tragica che fa da sfondo alla storia.Quali sono le impressioni delle due interpreti sul film che hanno girato? Roberta Da Soller: Le mie impressioni sul film montato sono state ottime e molto emozionanti. Soprattutto le parti in cui non ci sono io. Ho apprezzato molto il risultato ottenuto con il lavoro fatto dagli attori sui risvolti psicologici e soprattutto sul linguaggio.
Maria Roveran: Per quanto mi riguarda è stata un'esperienza fortissima. E' un film in cui la terra è stata molto presente da molte prospettive, così come i corpi e mi è piaciuto lavorare ad un film per il quale è importante il rapporto tra terra, corpo e lingua. Hanno avuto molta importanza le improvvisazioni legate al luogo. Il nord est per me è casa e poter indagare su aspetti legati alla territorialità, ma anche al rapporto tra genitori e figli, è stato formidabile. Abbiamo fatto un ottimo lavoro sull'improvvisazione e sulla maturazione psicologica.
Il regista può approfondire il discorso sulla recitazione? E' un film di finzione, ma lo sguardo è ancora quello del documentario. Alessandro Rossetto: La lavorazione non è stata classica in senso assoluto, perchè ho usato gli strumenti del documentario. Abbiamo diviso il tempo del lavoro in maniera non canonica. Quello che ho cercato di fare per rendere più profondi i personaggi è stato di usare la lingua per andare oltre. Il dialetto è una lingua pre-materna, che ti collega a qualcosa di più basilare della famiglia e questo ha permesso agli attori di collegarsi ad elementi che prescindevano da loro. Nel lavoro quotidiano ho usato diverse tecniche: alcune scene sono state scritte partendo da improvvisazioni precedenti, altre invece erano blindate e sono state girate così come scritte, altre ancora hanno avuto un percorso di alcune ore sulla base di indicazioni di base. L'ultimo aspetto è il tentativo, spero riuscito, di calare situazioni in quadri di realtà non preparati. E' la forza del documentario che abbiamo applicato a questo progetto e tutto questo è stato possibile perchè la troupe del film aveva una formazione speficica di questo tipo.Mi incuriosisce il titolo del film: piccola in senso logistico o in senso di meschino? Alessandro Rossetto: La piccola patria è la piccola patria dell'anima. E' probabilmente il territorio che raccoglie il dramma del film. Strumentalmente collego la lingua con la parola patria presente nel titolo. E' così qualificante per il film la lingua che si parla che la parola patria in questo senso, associato all'attributo piccolo, ci è sembrata fin da subito adatta. Tradizionalmente è comunque un modo di dire che affonda le radici molto lontano nel tempo nel territorio del nord est.
E' un film che non prende subito, che coinvolge sulla lunga distanza, e le storie che racconta sanno di irrisolto. Pensa ci sia speranza di integrazione nel nord est? Alessandro Rossetto: Questo è un racconto, una tragedia classica, non c'è afflato sociologico di alcun tipo. La speranza c'è nei dettagli, nel colpo di pistola che non parte e nel recupero di Luisa. Quanto all''integrazione secondo me è molto presente, nonostante tutto. Le cose vanno avanti e non saranno le piccole e medie resistenze a frenare un processo ineludibile. Infatti cerchiamo di parlare di nuovi Italiani, ma senza emettere giudizi. Il fatto di essere così duro e tragico è una scelta di ordine narrativo.
I personaggi adulti incarnano diversi sguardi sul nord est. Che ne pensano i loro interpreti? Mirko Artuso: Il mio personaggio è una persona che non prende posizioni e sembra essere una persona depressa senza obiettivi da raggiungere. Ed è inevitabile che accada ciò in questo territorio, ma in gran parte di questo paese. Non ha possibilità di scampo, perchè ha sempre subito quello che gli accadeva intorno e l'unica arma che possiede è la rabbia che prova. E' una maschera, un tipo, un modo di essere. Una condizione da cui difficilmente si può sfuggire.Diego Ribon: Il mio personaggio è un grande portatore di dolore, che ha dentro e gli impedisce di avere rapporti normali. Incapace di rapportarsi con l'affetto che porta dentro, un uomo debole anche se diventa violento. Fa parte di quella gente che guarda ma non vede, che ha lo sguardo vitreo e pensa di sapere come va il mondo, che ritiene che lo straniero sia qualcuno che gli ruba la terra ed il lavoro. Ho cercato di essere, liberandomi di molti orpelli che le tecniche di recitazione impongono.
C'è una scena in cui i protagonisti partecipano alla riunione di un partito. In che modo la politica fa parte dell'ambientazione del film? Alessandro Rossetto: La scena del partito è una piccola componente del film e fa parte di una serie di situazioni che compongono il coro tragico di Piccola patria. Il partito esiste, è una situazione reale in cui gli attori sono stati calati. E' una scelta strumentale perchè nella scena successiva i protagonisti si dimostrano molto più disperati di quanto potesse essere l'oratore del piccolo comizio precedente.