Tutto è iniziato con un appello sui social a condividere le proprie storie sull'Alzheimer, la malattia che colpisce il sistema nervoso portando irreversibilmente alla perdita della memoria. Così è iniziato per Paolo Ruffini il viaggio di PerdutaMente, il documentario diretto insieme a Ivana Di Biase che racconta la malattia dal punto di vista delle persone che si prendono cura con amore incondizionato di chi ne è affetto. Una carrellata di storie attraverso un pellegrinaggio dal Nord al Sud dell'Italia per incontrare questi invisibili: madri, mogli, mariti, nipoti e fratelli ogni giorno alle prese con il carico fisico ed emotivo cui devono far fronte nell'accompagnare i propri cari in questo viaggio in cui la memoria sbiadisce, ma i sentimenti da qualche parte sopravvivono. Dopo la sala (dal 14 al 16 febbraio scorso), PerdutaMente arriva anche su Sky dal 25 aprile.
La genesi di PerduTamente
Come nasce il desiderio di raccontare l'Alzheimer?
Paolo Ruffini: Sono partito come l'armata Brancaleone, alla Don Chisciotte, è stato un volo che non sapevo dove mi avrebbe portato, ero semplicemente mosso dalla curiosità, un atteggiamento che riesce forse a lasciarti anche un po' di distanza rispetto a ciò che racconti. Ci abbiamo messo quasi due anni per realizzarlo e quattro mesi incessanti di montaggio. Pensavamo fosse urgente raccontare queste storie; viviamo un periodo storico in cui si parla tanto di malattia e non di salute, di morte e mai di vita, quindi mi interessava spostare il fuoco. L'Alzheimer non è solo una malattia, ma un modo diverso di concepire la vita; Perdutamente non è un film a tesi o di divulgazione, ma un'opera in tre atti che racconta di come siamo venuti qui non per vivere ma forse per amare. Mi sono chiesto perché se ne parlasse così poco e, come già successo con Up & down, abbiamo pensato si potesse realizzare anche su questo tema un film pop, con Ivana che mi segue e mi sostiene da tanti anni: io sono la parte più approssimativa, lei quella più scientifica.
Come vi dividete i compiti?
Ivana Di Biase: Lui sogna e io provo a capire come costruire tutto. E costruire con lui che continua a sognare un po' troppo veloce, è difficile ma anche un privilegio. In questo film ho curato la parte di ricerca e sviluppo e tutta l'avventura nasce da un invito sui social a condividere le proprie storie; con grande sorpresa abbiamo ricevuto centinaia di lettere, messaggi e segnalazioni. C'è stato un lungo lavoro sia per cercare storie diverse, che rappresentassero vari aspetti e parti dell'Italia, sia per prepararci ad affrontare questo tema e incontrare le persone e le loro fragilità con cura e rispetto. E poi è successa una magia dopo l'incontro con Franco che è stato uno spartiacque, il link tra la parte scientifica che ho studiato da profana e quella emotiva che ha saputo raccontarci. Abbiamo scoperto che condividere con le persone è catartico, ci hanno regalato le loro storie, le loro vite e gliene siamo grati.
Cosa vi ha guidato nella scelta delle storie?
P. R.: All'inizio ignorantemente pensavo fossero storie legate a coppie di persone anziane che vivono una situazione drammatica. L'Alzheimer per me era questo. Quando Ivana mi fece notare che stavano arrivando storie in cui il legame familiare non era solo quello coniugale, ma parlavano di sorelle, figli, madri con figli lontani, allora ho iniziato a sradicare l'idea che l'Alzheimer fosse legato alla vecchiaia. Una delle prime cose che ho capito in quel momento è che si tratta di una malattia legata alla vita. Abbiamo iniziato a raccogliere storie con carattere diverso, attraverso diverse tipologie di storie raccontavamo così diverse tipologie di vita.
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Un viaggio emotivo
Come avete affrontato questo viaggio dal punto di vista emotivo e cosa vi ha lasciato?
P. R: Non saprei cosa rispondere, non ho parole per definirlo. Il film ha avuto una lavorazione talmente lunga che sono successe tante cose, alcune delle persone raccontate in quelle storie se ne sono andate, la moglie di Raimondo ad esempio è morta poco prima di Natale, e quindi la parte emotiva è stata molto forte. Abbiamo lavorato una materia spigolosa, sapevo sarebbe stato un viaggio difficile ma non immaginavo così complesso, la carica emotiva del film si vede, anche se abbiamo cercato di non indulgere molto su alcuni aspetti, tenendo la macchina da presa fuori da certa intimità, non ci interessava raccontare aldilà di quello che la parola può già dire come un'emozione.
I. D. B: Io raccoglievo le storie e cercavo di capire la genesi di ciascuna e le varie ripercussioni familiari. Paolo ha saputo vederci dentro i diversi tipi di amore e senza rendercene conto abbiamo iniziato a seguire quelle storie. Abbiamo inseguito l'amore attraverso l'Alzheimer, e forse è questo quello che abbiamo cercato nelle storie quasi senza rendercene conto: eravamo partiti dalla malattia e dai legami e siamo arrivati alla sublimazione dell'amore espresso in tanti modi possibili tra nonni e nipoti, genitori e figli, compagni e compagne.
P. R.: Quando leggevamo le storie non ci rendevano conto di quello che erano, la più sconvolgente per me è stata quella Mimmo e Nina (n.d.r un'anziana ammalata di Alzheimer che si prende cura del figlio disabile). È un'immagine schiacciante, vedere due fragilità che non riescono a stare insieme se non appoggiandosi una sull'altra è stato incredibile. Non potrebbe esistere un film su quella storia, parliamo di una malattia che neanche il cinema ce la fa. Abbiamo visto film bellissimi sull'argomento da Still Alice a The Father, ma tutti raccontano l'Alzheimer e non una storia dove c'è l'Azheimer, non esiste un film che possa raccontare quello che ho visto con Nina e Mimmo, non esiste sceneggiatura così.
Nasci attore comico, cosa ti ha spinto a occuparti del sociale e a cercare di condividere questi temi con gli altri?
P.R.: Il mio è stato un percorso di sponda. Quando ho iniziato a fare cinema, facevo i cineforum. Sono uno spettatore professionista che si è ritrovato la grande opportunità di raccontare qualcosa. Molti pensano sia scemo, ma non mi importa, amo profondamente tutto quello che ho fatto, anche i cinepanettoni, e credo ci sia un grande senso di cinema anche dietro quelli; dopo tutto è plausibile che una persona che fa la scema non lo sia e che racconti cose che sceme non sono.Ciò che mi spinge è la voglia di raccontare e far star bene le persone, mi sento insignito del valore di intrattenere il pubblico, che sia con le risate o con la commozione dipende da quello che scelgo di raccontare. A me piace ingannare la gente, se un ragazzo ci casca e viene a vedere il film per me è una vittoria. Sono una creatura pop e non è detto che delle cose serie si debbano affrontare in maniera seriosa, si possono affrontare anche con una serietà alternativa.
Il senso del comico
In assenza di verità e generosità può esistere una comicità profonda?
P.R.: Per me la comicità è molto profonda. Comici illustri che ci hanno preceduto raccontavano episodi tragici spesso con vena comica, siamo noi che in questo momento scambiamo la comicità per "senza pensieri" ma il più grande senso del comico è esattamente la tragedia. Nella commedia contemporanea penso a Checco Zalone, se guardo al passato penso ai vecchi Risi, Monicelli che riuscivano a raccontare un versante divertente dietro tematiche importanti. Il grande equivoco in Italia è pensare che il comico sia solo il giullare.
Cosa vi spaventava?
P. R.: Non volevamo fare un film patetico o che trasudasse pietà, che fosse indulgente nei confronti della strumentazione anche vaga della malattia. Avevamo voglia di affrontare il tema a volte anche con una dose leggerezza e senza macigni nel cuore. È un documentario che racconta storie d'amore attraverso il cinema, ma non è un film di denuncia.