Ho la reputazione di essere l'enfant terrible spagnolo, ma non ho mai provato o voluto scandalizzare nessuno. Era il mio modo di raccontare la storia, il mio modo di guardare il mondo intorno a me...
Quando, alla soglia dei trent'anni, Pedro Almodóvar dirige il suo lungometraggio d'esordio (Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio), la Spagna ha appena completato la fase della sua transizione verso la democrazia. Il Generalissimo Francisco Franco è morto nel novembre 1975, dopo aver mantenuto per trentasei anni il timone dello Stato, i Borbone sono tornati sul trono e nel giugno 1977 hanno avuto luogo le prime libere elezioni dopo ben quattro decenni. Ma l'epoca della transizione è anche una fase di enormi trasformazioni socio-culturali, in cui la Spagna post-franchista cerca di ridefinire la propria identità innanzitutto attraverso l'apporto delle nuove generazioni e delle influenze provenienti dall'estero: in primis dalla Gran Bretagna, patria del punk, e dalla controcultura underground newyorkese. Un potpourri di elementi e suggestioni a cui i giovani artisti spagnoli si rifanno per dar vita al movimento noto come movida madrileña.
Ritratto del regista da giovane: i primi cult di un enfant terrible
È nella suddetta cornice che sale alla ribalta Pedro Almodóvar, nato e cresciuto nella provincia rurale di Ciudad Real e approdato a Madrid appena diciottenne per studiare cinema; "Sono sempre stato molto interessato alla scrittura. Ma mi è sembrato di avere più capacità nel raccontare una storia per immagini. A quanto pare ho più talento per il cinema che non nella scrittura di un romanzo, che è il mio sogno". E i primi film di Pedro Almodóvar, slabbrati, anarchici, squisitamente postmoderni, catturano appieno lo Zeitgeist della Spagna all'alba degli anni Ottanta: mettendo al centro della scena personaggi sbandati e outsider e dando libero sfogo a una sensibilità smaccatamente queer, il giovane regista e sceneggiatore porta sullo schermo un atto di ribellione contro le convenzioni e il conservatorismo di un paese rimasto 'congelato' in una dittatura pluridecennale e che aveva subito altrettanto a lungo la morale repressiva del cosiddetto nacionalcatolicismo.
Riportate nelle sale italiane da CG Entertainment in versione restaurata all'interno della rassegna Almodóvar - La forma del desiderio, le pellicole realizzate da Pedro Almodóvar fra il 1983 (Il fascino indiscreto del peccato) e il 1991 (Tacchi a spillo) testimoniano lo sviluppo di un cineasta avviato a diventare uno degli autori più importanti della scena mondiale. Al contempo, offrono la possibilità di assistere alla sua evoluzione dallo stile trasgressivo e iconoclasta delle origini, durante l'acme della movida madrileña, alla rielaborazione dei canoni del melodramma, il genere a cui Almodóvar si sarebbe legato maggiormente, amalgamando i modelli del passato (Douglas Sirk, Rainer Werner Fassbinder) con la tendenza alla commistione e al pastiche. Ripercorriamo dunque le cinque opere riproposte nella rassegna La forma del desiderio e il loro ruolo nell'itinerario del cinema di Almodóvar.
Pedro Almodóvar: i temi chiave del suo cinema fra desiderio e sentimenti
L'indiscreto fascino del peccato
Se Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio (1980) e Labirinto di passioni (1982) incarnano per antonomasia l'estetica e i temi della movida madrileña, nel terzo lungometraggio di Pedro Almodóvar tale spirito di 'rottura' è incanalato in una forma più compiuta e coerente, che coincide anche con una prima visibilità internazionale. Rifiutato a Cannes per la sua apparente blasfemia, L'indiscreto fascino del peccato viene proiettato fuori concorso alla Mostra di Venezia nel 1983 e non tarda a evocare confronti con Luis Buñuel (e buñueliano, non a caso, è il titolo scelto per il mercato italiano): sia per l'irridente rovesciamento dell'iconografia cattolica, sia per i suoi toni da commedia surreale, inclusa la presenza di una tigre in un convento. Il convento in questione è quello delle "redentrici umiliate", suore sui generis che, nel loro variopinto microcosmo monacale, si dedicano a ogni tipo di eccesso, dal consumo di droga alla narrativa pornografica: uno scenario paradossale in cui si inserisce la figura di Yolanda (Cristina Sánchez Pascual), cantante di night-club in fuga dalla polizia.
Che ho fatto io per meritare questo?
Se le monache de L'indiscreto fascino del peccato vivono nel segno di una sfrenata libertà, al contrario la protagonista di Che ho fatto io per meritare questo? risulta prigioniera del grigiore domestico e dei dettami di una concezione patriarcale della famiglia. Uscito nel 1984, il film gioca con il registro della commedia grottesca per mettere alla berlina il conformismo disperato della Spagna post-franchista: Gloria, la casalinga interpretata da Carmen Maura (musa per eccellenza di questa prima parte della filmografia almodóvariana), è succube di una routine che pare non lasciarle vie di fuga. In Che ho fatto io per meritare questo?, ritroviamo comunque l'ironia beffarda e dissacrante che sarà un tratto distintivo del cinema di Almodóvar: a partire dalla presenza di comprimari borderline, di sottotrame improbabili (una cantante tedesca riemersa dal passato, una bambina con poteri telecinetici) e della propensione per il politicamente scorretto (un ragazzo dodicenne che arrotonda il bilancio familiare concedendosi a dei pedofili).
La legge del desiderio
La metà degli anni Ottanta segna una prima svolta nella filmografia di Almodóvar, sempre più interessato ad esplorare i territori del melodramma e ad intrecciarne i codici con quelli del thriller. Nel 1986 il regista firma Matador, mélo iperstilizzato in cui gioca con gli archetipi del noir, ma è un anno più tardi, con La legge del desiderio, che questa formula raggiunge il suo apice, mediante la vicenda del torbido rapporto fra il cineasta Pablo Quintero (Eusebio Poncela) e il giovane Antonio Benítez (Antonio Banderas), suo giovane e adorante ammiratore, travolto da una passione ossessiva per il proprio idolo. Presentato al Festival di Berlino 1987 e accolto da un grande successo in patria (ma anche al di fuori della Spagna), La legge del desiderio impernia la tensione del racconto su un erotismo dirompente, che percorre la narrazione fin dall'incipit - una scena di masturbazione dal taglio meta-cinematografico, e quindi fondata sul concetto di artificio - ed è associata inesorabilmente a un senso di minaccia e di morte.
Donne sull'orlo di una crisi di nervi
Dal thriller erotico alla rivisitazione della commedia hollywoodiana classica, Donne sull'orlo di una crisi di nervi è l'opera della consacrazione definitiva di Pedro Almodóvar, nonché un ideale punto d'arrivo della sua poetica postmodernista. Presentata alla Mostra di Venezia 1988, dove ottiene il riconoscimento per la sceneggiatura, la pellicola registra più di tre milioni di spettatori in Spagna, si aggiudica cinque premi Goya e riceve la nomination all'Oscar come miglior film straniero. È sempre una strepitosa Carmen Maura a catalizzare l'attenzione del pubblico nei panni di Pepa Marcos, attrice e doppiatrice in preda a una rabbiosa frustrazione per essere stata lasciata dell'amante Iván (Fernando Guillén); e il tema dell'abbandono, evocato mediante La voce umana di Jean Cocteau (uno dei testi di riferimento di Almodóvar), fa da motore a una girandola di equivoci, gelosie e inseguimenti, la maggior parte dei quali si consuma nell'appartamento ultramoderno di Pepa, dominato da accesi cromatismi. Ancora una volta, passione e artificio sono i poli di un film che entrerà fin da subito nell'immaginario collettivo e che resta fra i più popolari nella carriera del regista manchego.
Le donne nel cinema di Pedro Almodóvar: madri, mogli e amanti sull'orlo di una crisi di nervi
Tacchi a spillo
Se Donne sull'orlo di una crisi di nervi offriva rimandi al cinema di Billy Wilder e Alfred Hitchcock, amalgamati però in maniera personalissima, Tacchi a spillo, uscito nel 1991 (nel mezzo si colloca la black comedy Légami!), recupera invece certi modelli del woman's picture, a partire dall'esplorazione di un conflittuale rapporto tra madre e figlia: la celebre cantante Becky del Páramo (Marisa Paredes) e la giovane Rebeca (Victoria Abril), giornalista televisiva che non è mai riuscita a emanciparsi del tutto dal peso della figura materna. In questo anomalo melodramma, in cui gli echi hollywoodiani (a partire da Il romanzo di Mildred di Michael Curtiz) si saldano a un ricalco di Sinfonia d'autunno di Ingmar Bergman (citato in maniera esplicita), Almodóvar reinnesta pure gli ingredienti del giallo e del noir, cristallizzando uno stile ormai inconfondibile. Da lì a qualche anno, a respingere i rischi della 'maniera' sarebbe arrivata una svolta ulteriore, inaugurata nel 1995 da Il fiore del mio segreto e portata a compimento nel 1999 con il capolavoro Tutto su mia madre.