Da un regista dallo stile personale e riconoscibile come Paolo Sorrentino e da un interprete tra i più rappresentativi dell'attuale scena hollywoodiana come Sean Penn, non poteva venir fuori un'opera che lasciasse indifferenti: This Must Be the Place è film probabilmente destinato a dividere, tematicamente e stilisticamente complesso, visivamente elaboratissimo e con una componente grottesca che (dati i temi affrontati, tra cui quello sempre delicatissimo dell'Olocausto) probabilmente non è pensata per piacere a tutti. Resta comunque, questa trasferta oltreoceano del regista napoletano, un'opera assolutamente da vedere e ripensare a lungo, potente nella messa in scena e toccante, pur nel suo peculiare modo e con il suo ritmo volutamente diseguale, nello svolgimento.
Del film e di tutto ciò che è ruotato intorno alla sua produzione hanno parlato, in un'affollata conferenza stampa svoltasi a Roma, lo stesso regista insieme al co-sceneggiatore Umberto Contarello e al produttore Nicola Giuliano.
Sorrentino, cosa può dirci sulla sua collaborazione con David Byrne? Il suo film, nello stile, ricorda molto quello diretto da lui.
Paolo Sorrentino: Il film diretto da Byrne (si riferisce probabilmente a True Stories, unico lungometraggio diretto dal cantante, ndr) mi piace moltissimo, ma i riferimenti per il mio film sono molteplici e variegati. Forse anche il suo film ne fa parte, ma se è così è stato un processo involontario: d'altronde, lui in gioventù era un mio idolo. Nel film c'è una sua "dittatura" dal punto di vista musicale, ma forse inconsciamente questa si è ripercossa anche dal punto di vista cinematografico. Inizialmente, quando gli proponemmo di partecipare al film, lui disse di sì come si dice sì a dei pazzi, solo per toglierseli di torno: solo dopo, quando il progetto ha preso forma, ne è stato più convinto. Era un po' più titubante solo per quanto riguarda il recitare, ma alla fine siamo riusciti a convincerlo.
Il trucco del personaggio, e il trolley che si trascina dietro, sono un po' delle "coperte di Linus" dietro le quali nasconde il suo dolore? Paolo Sorrentino: Sì, assolutamente. Ma va detto che lui, per gli altri, è anche un inimitabile portatore di gioia.Il film è anche un'opera sull'Olocausto, la massima tragedia del '900. Quando il protagonista si confronta col criminale nazista, gli chiede il motivo dello sterminio da loro perpetrato, e questa è una domanda che torna spesso nella storia. Lei che risposta si è dato?
Paolo Sorrentino: Innanzitutto devo dire che il mio non è un film sull'Olocausto, ma semmai un film che si muove su quello sfondo, uno sfondo che è il più grande ventaglio della storia sul comportamento umano, e sulle sue aberrazioni. L'argomento, comunque, è troppo complesso per essere ricondotto a una sola motivazione. Tanti storici hanno provato a dare delle risposte, e una risposta definitiva ancora non si è trovata: non credo di poter essere io a darla.
Come è stato lavorare con Sean Penn?
Paolo Sorrentino: Il lavoro con lui, in realtà, ricorda molto quello che ho fatto insieme ad altri attori, con la differenza che lui dà subito la sensazione di poter fare di tutto. Questo apre grandi scenari, alcuni anche pericolosi, perché lavorare con un attore così versatile ti può dare l'illusione di poter andare ovunque, col tuo film. Il personaggio, nelle sue caratteristiche, era già scritto, ma Sean ha messo moltissimo negli "interstizi" della sceneggiatura, per esempio la voce in falsetto e il modo di camminare sono sue idee.
Ha visto il film doppiato in italiano, e se sì cosa ne pensa?
Paolo Sorrentino: Il doppiaggio è molto buono, come d'altronde succede quasi sempre, in Italia: i nostri doppiatori sono i migliori del mondo. Resta il fatto che la mia preferenza, in generale, va per la visione in lingua originale.
##Nel film c'è una scena molto complessa, con David Byrne che canta su un palcoscenico mobile. Come l'avete realizzata?## Paolo Sorrentino: Quella è stata una mia idea, cercavo qualcosa che fosse compatibile con ciò che fa musicalmente Byrne. Realizzarla comunque è stato molto complicato, principalmente perché il meccanismo che muoveva il tutto doveva essere silenzioso, per non andare a interferire con la musica. Ho preferito, comunque, girarla in un'unica, lunga inquadratura, diversamente da quanto accade normalmente per le riprese dei concerti, spesso eccessivamente spezzettate.Il cast del film è internazionale, la sua estetica, in fondo, pure. Da cosa se ne riconosce, quindi, l'italianità?
Paolo Sorrentino: Semplicemente dal fatto che l'abbiamo fatto noi. Il film è stato concepito e realizzato da italiani. E poi, cos'è di preciso l'italianità? Io sinceramente non so dirlo.
Umberto Contarello: La vera domanda è: in cosa si vede che è un film di Paolo Sorrentino? Risposta: in tutto. Paolo Sorrentino è un regista italiano, e quindi, facendo un sillogismo, l'italianità sta in questo.
Negli USA avete trovato un accordo per la distribuzione con Harvey Weinstein, e il film potrebbe concorrere ai prossimi Oscar. Avete avuto notizie in merito?
Nicola Giuliano: L'accordo con Weinstein è molto recente, e non sappiamo ancora se ci saranno i tempi tecnici per far concorrere il film per gli Oscar. Weinstein è interessato a puntarci, ma tutto dipende se si riuscirà a farlo uscire entro dicembre.
Sorrentino, il film può essere definito, per certi versi, una sua personale versione di Viaggio in Italia di Roberto Rossellini e di Una storia vera di David Lynch?
Paolo Sorrentino: Non saprei, questi sono grandi film, io spero semplicemente che il mio piccolo film sia un film buono. Una storia vera, comunque, ce l'avevamo come riferimento, specie per l'elemento della lentezza, che torna anche nel nostro film.
##Come vi siete sentiti, voi produttori, ad affrontare un progetto così grande, e ambizioso?## Nicola Giuliano: In questi casi c'è sempre una fase iniziale euforica, in cui ti sembra tutto facile, poi vengono fuori le difficoltà, specie per un film che viene preparato in Italia e girato all'estero, in Irlanda e negli USA. La difficoltà più grande comunque è stata l'architettura finanziaria, avevamo anche contemplato l'ipotesi di affidarci a uno studio americano che finanziasse il film, ma poi abbiamo rinunciato: il rischio di ingerenze nel processo creativo era troppo alto.Cosa volevate raccontare, di preciso, con un film come questo?
Paolo Sorrentino: Molte cose. Secondo me, un film dev'essere un'occasione per mettere più carne al fuoco, per parlare di più argomenti: qui si vuole raccontare la storia di un personaggio con certe caratteristiche, si vuole parlare dell'assenza di un rapporto affettivo tra padre e figlio, e inoltre, con umiltà, volevamo anche approcciarci a un tema come l'Olocausto, anche se solo per squarci e principalmente come sfondo.
Umberto Contarello: A me il film piace perché nasce e viene fuori dal desiderio di mettere, in un film, le cose che ci piacevano. Un film, secondo me, può e deve essere anche questo: la sintesi delle cose che, molto ingenuamente ed infantilmente, ti piacciono. Per raggiungere questo risultato, però, serve un regista dalla grande capacità di sintesi visiva.
Sorrentino, c'è un collegamento tra il personaggio di Cheyenne e il Tony Pagoda del suo romanzo Hanno tutti ragione?
Paolo Sorrentino: No, credo che l'unico punto di contatto tra i due sia il fatto che sono entrambi cantanti.
##Come vi è venuta l'idea del trolley?## Paolo Sorrentino: Il trolley è un'invenzione che unisce genialità e semplicità: è quello che al cinema si dovrebbe sempre fare.Questo film le ha fatto venir voglia di fare altre esperienze analoghe? Girerà ancora oltreoceano, o tornerà a raccontare la realtà italiana?
Paolo Sorrentino: Non so se girerò ancora negli USA; è prematuro dirlo, vedremo. Di certo, la realtà italiana è sempre foriera di novità, e offre un bel serbatoio di idee.