Paola Barbato: “Dylan Dog? Non è un cavaliere e va totalmente contro l’archetipo dell’eroe"

Paola Barbato è tra le scrittrici e le fumettiste più conosciute in Italia. Vincitrice nel 2010 del Premio Scerbanenco e nel 2013 del Gran Guinigi come miglior sceneggiatrice dell'anno, ci racconta il suo incontro con Dylan Dog e la sua continua lotta col senso di colpa.

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Classe 1971, Paola Barbato è una scrittrice e fumettista italiana. Una donna carica di energia, di storie e che non riesce a stare ferma per un attimo con la penna in mano. Nasce come scrittrice di thriller, ma ben presto, prima ancora che possa davvero comprendere quel mondo, la sceneggiatura nel fumetto la travolge.
Il suo "bagno di inchiostro" avviene nel 1999 con uno dei titoli più iconici della Sergio Bonelli, Dylan Dog - Il film. Quella che sembra un'avventura nata quasi per caso, conferisce a Paola gli strumenti per affilare ancora di più il suo stile e la sua narrativa, facendola diventare con il tempo uno degli autori più importanti all'interno delle sceneggiature dell'universo di Dylan Dog.

Al Noir in Festival 2017, dopo la vittoria nel 2010 del Premio Scerbanenco con il romanzo Il Filo Rosso, Paola Barbato presenta il suo quinto libro edito Piemme Editore. Thriller attuale come mai in cui si mettono a confronto i genitori più liberi di oltre vent'anni fa e quelli eccessivamente apprensivi di oggi, il tutto sullo sfondo di angoscianti sparizioni e drammatici ritrovamenti.
Dalla narrativa al fumetto lo stile di Paola è inconfondibile, ma ricco di sfumature differenti, ecco perché ci siamo fermati con lei per approfondire di più gli aspetti della sua carriera.

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Il fortunato incontro nel mondo di Dylan Dog

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Parliamo di Dylan Dog. Cosa ha rappresentato per te diventare una delle sceneggiatrici di questo titolo che ha accompagnato e accompagna generazioni differenti? E, soprattutto, come sei entrata?

In realtà, come succede a volte nella vita, sono stata fortuna in tre/quattro cose lavorative, tra queste c'è Dylan Dog. Avevo scritto una serie di racconti che avevo proposto a vari editori milanesi, tra cui quelli di Dylan Dog perché speravo me ne acquistassero uno, in quanto erano un po' surreali; invece, l'editor in quel periodo di Dylan Dog era Mauro Marcheselli, ufficialmente la madre di Dylan Dog visto che Tiziano Sclavi è il padre, ha riscontrato che secondo lui c'era una certa vicinanza tra la mia scrittura e quella di Tiziano e mi chiese se volevo provare a sceneggiare. Io di sceneggiatura non sapevo nulla. Quindi, proprio allo sbaraglio sulla base delle sceneggiature di Tiziano, ho cominciato a lavorare lavorando, a sceneggiare sceneggiando con Mauro e Tiziano che come due mastini mi bastonavano nei primi tempi, correggendomi veramente a quattro mani. Ed è stata questa cosa straordinaria, questa fortuna immensa che mi ha portato da Dylan, facendomi scoprire dopo che il mondo del fumetto è pieno di aspiranti sceneggiatori che per anni mandano una prova in Bonelli senza riuscire ad entrare; invece, io senza voler entrare in Bonelli, senza aver fatto mai nulla, alla fine mi è andata bene.

Nelle tue storie di Dylan emerge molto bene la componente femminile e il ruolo della donna. Come l'hai inserita?

La componente femminile la inseriscono tutti, solo che tutti in linea di massima inseriscono sempre la stessa tipologia di componente femminile: cioè è una cliente che ha bisogno di Dylan e che è subordinata a quello che Dylan farà e, fondamentalmente, è la trasposizione della principessa che deve essere salvata dal cavaliere. Siccome io non credo che Dylan sia un cavaliere, credo anzi che vada totalmente contro l'archetipo dell'eroe, mi è sembrato più interessante avvicinarli dei personaggi femminili un po' più complessi. A volte personaggi negativi, a volte personaggi che pur avendo bisogno d'aiuto comunque creassero degli snodi narrativi un po' più interessanti dei soliti tre o quattro che abbiamo visto magari un po' spesso.

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C'è un personaggio con il quale hai avuto un po' di difficoltà a rapportarti all'interno dell'universo di Dylan Dog?

All'interno di Dylan Dog... sicuramente la fatica più assoluta, il vero inferno è gestire Groucho che è un passaggio verso il quale ho un trasporto, un amore assoluto ma anche un odio totale perché è molto difficile. A differenza di come si potrebbe immaginare, lui non è un battutista, si esprime con delle battute, il che è difficile perché lui deve rispondere a cose da mettere in un contesto in maniera coerente ma attraverso una freddura, una battuta, un gioco di parole. Per quanto riguarda gli altri personaggi storici di Dylan Dog non ho avuto mai grandi difficoltà, forse Lord Wells è quello che ho gestito meno ma anche perché è arrivato un po' il diktat di Tiziano che non amava che si utilizzasse molto. Non è un personaggio semplice, perché non renderlo una macchietta è molto difficile, in quanto si presenta con una soglia vicinissima a quella del personaggio poi da buttare un po' in caciara, e non è così che andava gestito. Si, sicuramente con lui avrei fatto un enorme fatica.

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Dal titolo alla storia: la nascita del nuovo libro

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Passiamo al tuo nuovo romanzo: Non ti faccio niente. Titolo emblematico per un libro che parla di genitori che sono stati rapiti, tornando alle loro vite incolumi, ma ai quali vengono rapiti i figli, restituiti poi morti. Sembra quasi un gioco di scatole cinesi. Come nasce l'idea? E soprattutto prima la storia o prima il titolo?

Il titolo è una delle cose che è nata prima della storia. Ogni tanto nasce questa scintilla in cui pensi che "questo" sarebbe un bel titolo. Poi, però, ti ritrovi con un titolo ma senza storia. La storia del romanzo è data dal principio che una goccia di veleno al giorno alla fine ti immunizza per tutta la vita. Io credo che la paura sia uno dei pochi istinti rimasti al nostro genere, alla nostra specie, visto che tutti gli altri ma mano sono andati a ramengo. Ci rimane la paura come istinto di auto-preservazione. A volte ne abbiamo troppa, come nei tempi odierni nei confronti dei nostri figli. Abbiamo troppa paura, a tal punto da diventare soffocanti, mettendoli in una campana di vetro, esagerando da un lato. Poi penso alla generazione dei genitori degli anni '80 dove, dall'altro lato, si esagerava nella troppa fiducia nei confronti della società. La convinzione che qualcuno avrebbe guardato i bambini al posto dei genitori. Io ho vissuto in quegli anni, sono stata bambina in quegli anni e so benissimo che quando uscivi dal portone di casa, e la porta si chiudeva, eri fuori e dove si era nessuno lo sapeva. Era bello ma era anche pericoloso. Ragionando, quindi, un po' sulla mia infanzia, sui nuovi genitori apprensivi, è nato un confronto fra me che venivo sempre sorvegliata e le mie amiche che non venivano sorvegliate, e tutti quei piccoli avvenimenti che ci sono stati un po' nella vita di tutti noi bambini, piccole cose come uomini nel parco col giornale, per capirci. Mi sono sempre chiesta se forse un pochino di paura in più in quei genitori avrebbe potuto evitare piccole cose, capitate a me ed ad altri bambini, come me grandi cose capitate a qualcun altro. E da questa riflessione poi, costruisci che ti costruisci, è nata la storia.

Il senso di colpa e la coscienza collettiva di oggi

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Ti leggo un passo del tuo libro che mi ha molto colpito: "Chi siamo noi di fronte a casi come quelli di Manuel Sarasso o di Greta Polimanti? Siamo giudici, giurie, testimoni? O forse dovremmo salire sul banco degli imputati?"

Si, c'è sempre questa opposizione da "io non ho visto, io non c'entro niente" ma siamo sempre tutti colpevoli di qualcosa che avviene in un ambiente a noi vicino. Non esiste quello che dice "ma io non ho mai visto nulla io, non ho mai sentito nulla, quindi, io sono innocente", perché tanti guardano poco, tanti non guardano, preferiscono guardare in casa propria. Io penso che ci debba essere una specie di coscienza collettiva un po' come adesso c'è per i casi di femminicidio. Pure se una non è morta, e se il marito non la sta ammazzando, è una specie di responsabilità che dobbiamo avere nel mandare i messaggi giusti, nell'assumerci anche noi la responsabilità di come poniamo certe questioni, di come le affrontiamo, di come reagiamo tutti e ognuno di noi deve fare una piccola parte. Se non la facciamo siamo colpevoli tanto quanto loro...

Parlando di colpe: credo che la colpa sia una delle tematiche alla base di Non ti faccio niente, che prende forma attraverso il personaggio di Vincenzo. Mi chiedo, invece, per te che cos'è la colpa?

La colpa è qualcosa con cui io convivo da tutta la vita, da quando sono nata. Il senso di colpa è la cosa che gestisco meno bene. Io ho dei sensi di colpa anche del tutto immotivati, aprioristici, per cui mi sento in colpa prima ancora che qualcosa avvenga. Penso che, forse, la colpa oggi possa essere il campanello di allarme che ci consente di avere una dirittura morale, che non necessariamente è collettiva, non necessariamente è uguale per tutti, ma penso che per ciascuno sia salvifica. Se noi riteniamo che ci sia qualcosa di cui possiamo avere colpa, magari riusciamo a rigare dritto. Cosa significa rigare dritto poi ognuno lo stabilisce, ma se non c'è senso di colpa, poco si fa.

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In bilico tra genitori e serial killer

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Il libro parla di bambini rapiti, e tu sei madre di tre figlie. Come ci si rapporta con queste storie come scrittore ma anche come genitore? Si riesce a scindere queste figure?

Io devo scindere. Sarebbe una forma di masochismo altrimenti raccontare le cose tenendo presente le mie tre figlie. Ho già abbastanza paranoie materne nella vita reale senza bisogno di trasporle in ciò che scrivo. Mi immedesimo di più nei bambini, ho una buona memoria della mia infanzia, quindi mi identifico molto di più con le figure infantili quando racconto queste storie. Mi vedo più nel ruolo della vittima che del carnefice o di chi rimane, ovvero il terzo elemento che è sempre quel personaggio che poi soffre di più. Tra vittima e carnefice è sempre il parente quello che poi rimane sotto il tiro per tutta la vita. In parte qualcosa immagino, questa percentuale è quella che mi consente di essere rispettosa quando racconto di fatti criminali relativi ai bambini e non indulgere nei dettagli.

Tu racconti di serial killer ma non serializzati. Come mai?

Perché non ci credo e io in generale non credo nei bianchi e nei neri, non credo negli assoluti. Credo che ci siano stati pochi veri serial killer canonici come vengono raccontati poi dalla letteratura effettiva, criminale. Credo ci siano stati molti aspiranti qualcosa che casualmente poi sono diventati serial killer, ma poi sulla serialità c'è ancora veramente tanto da lavorare, c'è tanto che non conosciamo. Penso che potenzialmente ciascuno di noi sia seriale in qualcosa. Tutti noi abbiamo una forma ossessiva di cui non conosciamo magari l'origine, che non riconosciamo, come semplicemente fare un gesto e continuare a farlo per tutta la vita; e, qualche volta, questa ricorrenza finisce in un atto criminale, ma credo che il serial killer sia una cosa molto più definita, quindi preferisco raccontare di avventizi.

Ed è per questo motivo che non hai mai scritto una tua saga legata a degli stessi personaggi?

No, non è questa la motivazione. Semplicemente non è ancora capitato, ma il fatto che non sia capitato è stato del tutto casuale, nel senso che io terminavo una storia e la ritenevo esaurita. Nel momento in cui la ritenevo esaurita non mi interessava andare a riprenderla per proseguirla. Poi, magari, un giorno scriverò una storia e penserò che da questa storia potrebbe derivarne una seconda, una terza, fino alla quindicesima. Non so se questo accadrà mai, se accadrà benissimo, non ho nulla in contrario alla serialità da questo punto di vista.

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Dal fumetto, alla narrativa, aspettando il cinema

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Nella tua carriera come scrittrice e sceneggiatrice ci sono narrativa, fumetti e anche una piccola parentesi televisiva. Il cinema, invece?

Il cinema non è ancora arrivato. A me piacerebbe moltissimo. Ho degli amici registi, come Alex Infascelli, regista di Nel nome del male dove ho lavorato come sceneggiatrice. Avevamo un progetto bellissimo con Stefano Sollima ma, a causa della sua fortunatissima carriera di cui sono estremamente orgogliosa, non è più andato in porto. Stefano è un grande regista e gli voglio molto bene, quindi per me va benissimo così come è andata. Comunque il cinema mi piace tanto, lo guardo, lo spio, sono tanto curiosa. Se mai dovesse arrivare io farei i salti di gioia. Se invece non arriverà, pazienza.

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E, invece, tra fumetti e narrativa, qual è la tua comfort zone?

Allora, la comfort zone dovrebbe essere il posto in cui ci si fa meno male, ma la realtà è che farsi male quando si scrive è bello, quindi è una comfort zone masochistica. A questo punto dico la narrativa perché nella narrativa io soffro come una bestia, però devo dire che è una sofferenza molto bella. Io mi faccio molto coinvolgere, ogni volta che c'è una botta emotiva, tipo quando ammazzo un protagonista a cui tengo, il piantino me lo faccio, mi dispiace. Ho dovuto farlo perché la storia me lo chiede e io obbedisco sempre alla mia storia.