Ci sono due tipologie nel comportamento umano: fuggire dal dolore e rifugiarsi nel piacere.
Il dolore. Un sentimento che può essere lieve oppure lancinante, tanto fisico quanto mentale. Ma cosa succede se qualcuno va ad approfittarsi di quel dolore? Proveremo a spiegarlo nella recensione di Painkiller, la nuova serie in sei episodi dal 10 agosto su Netflix, tratta da una doppia fonte: l'articolo del New Yorker The Family That Built an Empire of Pain di Patrick Radden Keefe e il libro Pain Killer: An Empire of Deceit and the Origin of America's Opioid Epidemic di Barry Meier, dai quali i creatori Micah Fitzerman-Blue e Noah Harpster hanno tirato fuori sei episodi per mostrare la nascita, la crescita e l'evoluzione della Purdue Pharma, l'azienda farmaceutica che ha creato l'OxyContin, un vero e proprio caso giudiziario di morte negli Stati Uniti. Nonché un modo per riflettere sul nostro rapporto col dolore e con la dipendenza.
Una serie sopraffina
Avete presente quando all'inizio di Fargo (tanto il film quanto la serie) un disclaimer avvisa che ciò che state per vedere è tratto da una storia vera ma si tratta di una presa in giro? In Painkiller invece è tutto dolorosamente vero, e sconvolge pensare che esistano davvero - come i cospirazionisti vorrebbero - aziende che sfruttano la malattia e il dolore delle persone. Un video iniziale, girato proprio come un documentario, all'inizio di ognuna delle sei puntate mostra le testimonianze reali di diversi parenti addolorati per la perdita dei propri figli a causa di ciò di cui si parlerà nella miniserie, per poi passare alla parte fiction, preponderante e prevalente. Già questo primo approccio dà però l'idea e la misura del tono del racconto, che non fa sconti a nessuno e vuole metterci di fronte alla dura verità.
Ovvero quella della Purdue Pharma, un'azienda familiare che fin dagli albori sosteneva tecniche barbariche come la lobotomia e il primo medicinale divenuto "famoso", il valium. Ad interpretare il suo fondatore Clark Gregg, che dopo l'agente Coulson torna in tv per dare volto e corpo al "fantasma" che infesta le giornate del nipote Richard Sackler (Matthew Broderick), che ha preso le redini della casa farmaceutica dopo la dipartita del vecchio deciso a superarlo in guadagni, e per farlo crea un antidolorifico ancora più potente, l'OxyContin. Più potente significa che può creare maggiore dipendenza, e lui e i suoi soci trovano dei modi per aggirare il "problema". Il piano diabolico di Richard, durante la battaglia per l'eredità piena di debiti dello zio da parte della famiglia, è quello di far sopravvivere l'unica azienda che possa davvero fruttare qualcosa. Questo grazie al marketing, aiutato da un lato dagli stessi medici di famiglia che non ne conoscevano la vera natura e dall'altro dalle ragazze di bell'aspetto assunte per pubblicizzarlo con dei veri e propri convegni aperti al pubblico.
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Tecniche di vendita
Focus group, discorsi motivazionali: sono questi gli strumenti che ben conosciamo dell'America consumistica e che ci vengono spiattellati in faccia per ricordarci quanto gli Usa possano essere grandi e allo stesso tempo pericolosi per se stessi e per i loro cittadini. Sono questi i meccanismi utilizzati dal personaggio di Matthew Broderick, che gli dona una silenziosa inquietudine e un disperato bisogno di controllo. A fare da voce narrante e vera protagonista della miniserie però, è il suo contraltare, la sua nemesi, il vero motore della miniserie e dell'azione: Edie Flowers, interpretata da una sempre azzeccatissima Uzo Aduba. Smessi i panni di Occhi Pazzi in Orange is the New Black e passati quelli della nuova terapista protagonista di In Treatment, la poliedrica attrice trova un nuovo ruolo a metà strada tra i due con questa investigatrice del procuratore distrettuale, abituata a scovare truffe di tipo medico. Una volta che la donna si troverà di fronte alla vicenda OxyContin, non riuscirà a credere ai propri occhi e deciderà di battersi per la verità, disilludendosi sempre più lungo il cammino e la dura battaglia legale che le si prospetta davanti.
Una battaglia, anzi una guerra, impossibile quando la compagnia produttrice ha protezione ai piani alti del governo e vuole lucrare sul dolore altrui. Tutto inizia con la testimonianza a porte chiuse di Edie, inizialmente riluttante, nel caso giudiziario contro la Purdue Pharma, e da lì inizia il racconto sull'origine, lo sviluppo e l'ascesa del farmaco. Parallelamente ci viene mostrata la storia di un paziente (un sempre ottimo Taylor Kitsch), il proprietario di un'officina, e di una delle "ragazze immagine" (West Duchovny, la figlia di David e Tèa Leoni vista di recente in Saint X) scovate e utilizzate dall'azienda per pubblicizzarsi in positivo. Tutte queste narrazioni correlate sono storie familiari come scopriremo, spesso di nuclei poco abbienti e quindi più facilmente influenzabili: per motivi e in modalità differenti, queste persone furono sfruttate dal piano finanziario di Sackler e ne divennero vittime.
La dura verità
Il pugno nello stomaco dato continuamente allo spettatore durante la visione, e soprattutto nell'epilogo di questa vicenda, serve a sensibilizzare sulla tematica raccontata e in un certo senso metterlo in guardia. Per quanto forse intriso di un pizzico di retorica, è ammirevole il lavoro svolto che mescola documentario e finzione, veridicità e romanzo, per una messa in scena in cui colpiscono la regia e il montaggio che si muovono bene tra queste diverse tecniche, mescolandole bene insieme. Painkiller si presenta fin da subito come una miniserie di denuncia che vuole farci riflettere su quanta facilità a volte intercorra nel percorrere la strada sbagliata, soprattutto se non si hanno le risorse adatte e ci si fida del sistema, e anche sul nostro rapporto col dolore. Lo fa mettendo in parallelo storie diverse a livelli differenti dell'azienda, mostrandoci come un solo farmaco possa distruggere intere famiglie, e facendo scontrare i titani Broderick e Uzo Aduba, che diviene il vero cuore dello show. Come del resto avevano già fatto, anche se in modo di diverso, The Dropout e Dopesick. Non bisogna smettere di parlarne.
Conclusioni
Alla fine della recensione di Painkiller ci ritroviamo soddisfatti di come Netflix sia riuscita a creare un'altra delle sue miniserie incisive e scioccanti per denunciare non solo la storia vera di un’azienda, ma il modus operandi di determinate case farmaceutiche e la conseguente dipendenza da antidolorifici che creano ai loro pazienti, perché il dolore è un’arma ingrata e pericolosa. Meravigliosa Uzo Aduba che si conferma un’ottima attrice e tiene le redini dei sei episodi anche attraverso il suo voice over.
Perché ci piace
- Uzo Aduba è fenomenale, Matthew Broderick è silenziosamente pericoloso.
- Mescolare documentario e fiction tanto nella scrittura quanto nella messa in scena.
- Il montaggio.
- Le tematiche del dolore e della dipendenza.
Cosa non va
- La miniserie potrebbe risultare un po’ retorica, ma il finale sarà un bel pugno nello stomaco.