Mentre scriviamo nella comunità di Masafer Yatta, in Cisgiordania, continuano da parte dei coloni e militari israeliani gli sgomberi e le reiterate violenze contro i membri delle comunità dei piccoli villaggi della zona. Solo qualche ora fa, al Dolby Theatre di Los Angeles, il collettivo palestinese-israeliano composto da Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor ed Hamdan Ballal ha vinto l'Oscar per il miglior documentario con No Other Land (che torna nelle nostre sale dal 6 marzo con Wanted Cinema per poi approdare in esclusiva su Mubi).

Il titolo, infatti, è una testimonianza dell'oppressione che da decenni vivono gli abitanti della zona. Tra di loro anche Basel Adra che in uno di quei villaggi è nato e cresciuto documentando con una piccola telecamera tutto quello che il suo popolo ha dovuto subire. La sua presenza, insieme ai suoi colleghi, sul palco degli Academy ha rappresentato uno dei pochi momenti apertamente politici di una cerimonia allineata ad un'atmosfera più ampia che aleggia da tempo ad Hollywood. Dal 2017, anno del primo mandato di Trump alla Casa Bianca, ad oggi, sono sempre meno le voci che non hanno paura di schierarsi apertamente.
Il discorso di Basel Adra e Yuval Abraham

Come già accaduto nel corso della cerimonia di premiazione di Berlino 74, quando No Other Land ha vinto il Berlinale Documentary Award e il Panorama Audience Award per il miglior documentario, anche agli Oscar 2025 Basel Adra e Yuval Abraham - rispettivamente palestinese e israeliano - ne hanno approfittato per mandare un messaggio. "Circa due mesi fa sono diventato padre e spero che mia figlia non debba vivere la stessa vita che sto vivendo io ora", ha esordito Adra. "Ho sempre avuto a che fare con la paura della violenza, demolizioni di case e spostamenti forzati che la mia comunità vive e affronta ogni giorno sotto l'occupazione israeliana. Nessun'altra terra riflette la dura realtà che sopportiamo da decenni e a cui ancora resistiamo mentre chiediamo al mondo di prendere seri provvedimenti per fermare l'ingiustizia e la pulizia etnica del popolo palestinese".
"Abbiamo fatto questo film, palestinesi e israeliani, perché insieme le nostre voci sono più forti", gli ha fatto eco Abraham. "L'atroce distruzione di Gaza deve finire e gli ostaggi israeliani brutalmente rapiti il 7 ottobre devono essere liberati. Quando guardo Basil, vedo mio fratello, ma non siamo uguali. Viviamo in un regime in cui io sono libero secondo la legge civile e Basil è soggetto a leggi militari che distruggono la sua vita e che non può controllare. C'è un percorso diverso, una soluzione politica senza supremazia etnica, con diritti nazionali per entrambi i nostri popoli. E devo dire, mentre sono qui, che la politica estera di questo paese sta contribuendo a bloccare questo percorso. Perché? Non vedete che siamo tutti interconnessi? Che il mio popolo può essere veramente al sicuro se il popolo di Basil è veramente libero e al sicuro. C'è un altro modo. Non è troppo tardi per la vita, per i vivi".

Un doppio discorso che tira in ballo Israele e Stati Uniti e che e prova a tracciare una strada diversa da quella finora percorsa. Un discorso che non ha paura di pronunciare parole come "pulizia etnica" e "occupazione israeliana", di sottolineare la profonda mancanza di giustizia con la quale deve fare i conti il popolo palestinese e chiedere di trovare un altro modo per poter veramente coesistere insieme. Il momento più significativo di tutta la cerimonia - e fa riflettere che il film rimanga ancora senza un distributore negli Stati Uniti -, che ha portato il mondo reale all'interno di un teatro (e di una bolla) in cui era seduto il gotha del cinema.
Uno strumento potentissimo nella sua possibilità di raccontare, condividere e denunciare storie. Ma se chi ha il potere e il privilegio di raggiungere milioni di persone con una parola o un gesto sceglie il silenzio o la cautela finiscono per non restare altro che abiti scintillanti e sorrisi da red carpet. Una vetrina luccicante, buona solo ad abbagliare.
La risposta di Israele
Il peso dell'Oscar a No Other Land e delle parole pronunciate dai due registi è ravvisabile nella reazione del ministro della cultura di Israele, Miki Zohar, che dal suo account X ha criticato il discorso di accettazione perché "distorce l'immagine di Israele nel mondo". "La vittoria dell'Oscar per il film No Other Land è un momento triste per il mondo del cinema. Invece di presentare la complessità della realtà israeliana, i registi hanno scelto di amplificare narrazioni che distorcono l'immagine di Israele di fronte al pubblico internazionale", ha scritto Zohar.
"La libertà di espressione è un valore importante, ma trasformare la diffamazione di Israele in uno strumento di promozione internazionale non è arte, è sabotaggio contro lo Stato di Israele, soprattutto sulla scia del massacro del 7 ottobre e della guerra in corso. Questo è esattamente il motivo per cui abbiamo approvato una riforma del cinema finanziato dallo Stato: per garantire che il denaro dei contribuenti venga destinato a opere d'arte che parlino al pubblico israeliano, piuttosto che a un'industria che costruisce la propria carriera sulla diffamazione di Israele sulla scena mondiale".
Il termometro dei tempi in cui viviamo

Per chi fa giornalismo cinematografico appare sempre più lampante quanto sia diventato difficile riuscire ad ottenere da registi e attori risposte dirette a domande altrettanto dirette riguardanti argomenti politici. Anche da quegli stessi registi o attori che nei loro film hanno toccato apertamente determinate tematiche. Una condizione generale riscontrabile nelle conferenze così come nelle interviste singole. Viene espressamente chiesto di non porre un certo tipo di domande e chi ci prova o viene ignorato o si ritrova con una risposta assolutamente blanda.
Lo ha raccontato molto bene Xan Brooks, giornalista del Guardian, chiamato a intervistare Robert De Niro per Zero Day, la serie in cui interpreta un'ex presidente degli Stati Uniti. Lui che non si è mai tirato indietro quando c'era da scagliarsi contro Donald Trump aveva la bocca cucita. A domanda diretta sulla sua opinione circa la politica odierna, l'attore ha dato una risposta vaga prima che la sua publicist chiedesse di tornare a parlare della serie (che, ribadiamo, parla apertamente di politica). Non è un caso isolato, è diventato la norma ed è il termometro dei tempi in cui viviamo.

E così quando Jane Fonda ha alzato il pugno ai SAG Awards ricordandoci che "Woke significa che ti importa degli altri", quel gesto ha assunto i contorni di un atto di ribellione nei confronti di uno stallo che finisce per impoverirci tutti. Importante ricordare come negli scorsi mesi un'altra attrice, Susan Sarandon, che ha fatto della sua carriera e visibilità un megafono per portare avanti battaglie politiche e civili, abbia pagato le sue posizioni pro Palestina venendo scaricata dalla sua agenzia.
Qualche (timido) accenno al mondo esterno

Oltre ai registi di No Other Land, questa 97ª edizione dei premi Oscar, ha avuto solo qualche altro breve accenno a ciò che avviene al di fuori del Dolby Theatre. Nel monologo iniziale di Conan O'Brien nessun accenno alla politica statunitense. L'unico riferimento del comico e presentatore all'attualità è avvenuto con una battuta dopo la seconda statuetta vinta da Anora. "Già due vittorie. Immagino che gli americani siano emozionati nel vedere qualcuno finalmente tenere testa a un potente russo". Un riferimento all'ex tycoon e a Putin in questi giorni impegnati nei negoziati per una possibile fine della guerra in Ucraina che, dopo l'intervento di Zelensky alla Casa Bianca, sembra più lontano.
Tra i presenti in sala pochissime spillette con i colori dell'Ucraina hanno ricordato il conflitto in corso da febbraio 2022. Solo Daryl Hannah, sul palco per consegnare l'Oscar per il miglior montaggio, ha preso il microfono per pronunciare due parole dalla forte carica simbolica: "Slava Ukraini" (Gloria all'Ucraina, ndr). Un altro momento diretto è stato quando i due registi iraniani Hossein Molayemi e Shirin Sohani, vincitori dell'Academy per il miglior corto animato con All'ombra del cipresso, ha sottolineato che il Paese ha concesso loro solo all'ultimo il visto dedicando il premio "a chi combatte le proprie battaglie".

Meno diretti, invece, i discorsi di ringraziamento di Zoe Saldaña, vincitrice del premio come migliore attrice non protagonista per Emilia Pérez, e Adrien Brody, vincitrice del premio come migliore attore protagonista per The Brutalist. L'attrice di origine domenicana ha ricordato la nonna arrivata negli Stati Uniti nel 1961. "Sono una figlia orgogliosa di genitori immigrati, con sogni, dignità e mani laboriose. Il fatto che riceva un premio per un ruolo in cui ho potuto cantare e parlare in spagnolo renderebbe felicissima mia nonna se fosse qui".
L'attore, che aveva già vinto nel 2003 per Il pianista, ha fatto accenno ai temi del film e alla loro attualità. "Sono qui ancora una volta per rappresentare i traumi persistenti e le ripercussioni della guerra, dell'oppressione sistematica, dell'antisemitismo e del razzismo. Prego per un mondo più sano, più felice e più inclusivo. E credo che se il passato ci insegna qualcosa, è un promemoria per non lasciare che l'odio passi inosservato".

È singolare notare che quest'edizione degli Academy Awards sia stata (stra)vinta da Anora. La parabola di Sean Baker su una spogliarellista convinta di aver trovato la sua Disneyland sposando il giovane figlio di un'oligarca russo, ma che finisce per realizzare come il sogno americano spesso sia solo una favoletta. E le favole, quelle vere non edulcorate da Hollywood, spesso hanno finali amari. Lo stesso retrogusto dei nostri tempi.