Orphan, recensione: il film di László Nemes ricerca ossessivamente la tecnica

Tanta (eccessiva?) estetica per il regista ungherese che, attraverso la figura di un padre-orco, guarda ad un passato che continua a perseguitarci.

Una scena di Orphan

Sono pochi i registi che riescono a parlare visivamente come Laszlo Nemes. Autore radicato in un presente che non può prescindere dal passato. Qualcuno la chiamerebbe universalità di linguaggio, ma forse a legger bene altro non è che l'osservazione del mondo, raccontato però scavando nel passato. Dopo La folgorazione de Il figlio di Saul (era il lontano 2015, con tanto di Oscar e Golden Globe), seguito da Tramonto (uscio nel 2018), ecco l'opera terza del regista ungherese: Orphan. Centotrentadue minuti (sì, sono tanti, e sì potrebbero pesare) presentati in concorso a Venezia 82, e girati in dieci settimane a Budapest. In mezzo, un viaggio catartico e doloroso, specchio di un mondo complicato da comprendere, e quindi mai del tutto risolto.

Orphan: nella Budapest del 1957

Orphan 2Utzyhk
Orphan: Bojtorján Barábas in una scena

A scrivere Orphan, oltre allo stesso Nemes, c'è Clara Royer, che aveva co-firmato anche i precedenti titoli. Non c'è dubbio che questo sia il più personale tra i film del regista ungherese: siamo nella Budapest del 1957. Per le strade ci sono ancora i resti della rivoluzione del 1956. E fa strano leggere su un foglio di giornale "niente armi nucleari in territorio tedesco", proprio oggi che l'Europa - a cominciare dalla Germania - insegue la smania della propaganda armata. Una "primavera" spinta da uno spirito anti-sovietico e affogata nel sangue dal maresciallo Konev.

L'autore gira attorno alla nascita (embrionale) del blocco Occidentale, raccontandolo attraverso lo sguardo di Andor (Bojtorján Barabas), ragazzino ebreo cresciuto con la mamma (Andrea Waskovics). Un ragazzo "tosto", innamorato di Puskas e innamorato della libertà. Il papà (Grégory Gadebois), secondo i racconti, sembrerebbe morto durante la seconda guerra mondiale. Il condizionale d'obbligo, perché il padre di Andor torna all'improvviso. Una sorta di fantasma, che si palesa in tutta la sua inaspettata brutalità. Sbatte i pugni, occupa lo spazio del patriarca. Il bambino, verso quella figura oscura e violenta, non può che provare un odio profondo, intossicando una crescita che lo spingerà a prendere la giusta posizione.

Il passato che ritorna

Costruito sulla spessa fotografia di Mátyás Erdély (girato in 35mm, con formato 4:3), dai toni ambra e ocra, alternando la luce e l'ombra (una metafora tanto chiara quanto didascalica), Orphan riapre la cicatrice di quei conflitti - sopratutto personali - per mezzo degli occhi sperduti di un dodicenne impossibilitato dagli eventi a vivere la propria età. Per questo, come ha anticipato Laszlo Nemes, il film punta a schiacciare la percezione (riuscendoci solo in parte), viziando l'aria scenica e avvolgendo ogni dialogo e ogni sequenza da un'atmosfera inquieta nella sua estrema ricerca dell'estetica (anche grazie al montaggio di Peter Politzer), appesantendo più del necessario l'intera struttura.

Orphan Scena
Orphan: Sándor Soma e Grégory Gadebois in una scena

Una scelta linguistica ben precisa (a tratti, forse, autoriferita), trasmettendo una potenza narrativa forse più teorica che pratica, capace tuttavia di tradurre il trauma di un bambino costretto a fare i conti con la "propria natura" - e infatti il film prende spunto dalla storia della famiglia dell'autore, a metà tra l'Olocausto e l'oppressione del regime comunista.

La bravura di Grégory Gadebois

Allora, mentre il viale del tramonto dell'Occidente è sempre più corto, Orphan riparte dal cuore dell'Europa delineando quel "passato che continua a perseguitarci" - come anticipa il regista nelle commento al film -, dimostrando ancora e ancora quanto il futuro sociale, politico e civile sia appeso ad un filo, minacciato da figure pericolose e distopiche. Per questo, il profilo del padre, che sembra quasi un reietto usurpatore disegnato come se fosse un orco (soprattutto negli ultimi venti minuti, i migliori di tutta l'opera). Infatti, Orphan funziona meglio quando è in scena il personaggio di un grande Grégory Gadebois.

Dall'altra parte, lo script è sintomatico di un presente - il nostro - che non riusciamo più a gestire, subendolo passivamente senza affrontarlo. Questione di identità (uno dei temi della poetica di Nemes), questione di consapevolezza, questione di un passato che torna a spingere, facendo(ci) girare lo sguardo all'indietro, così da accorciare le distanze, tornando forse ad essere gli eroi delle nostre vite.

Conclusioni

Laszlo Nemes guarda alla sua Ungheria per un romanzo di formazione personale e, se vogliamo, anche sociale. Un'istantanea storica ben precisa (e sicuramente interessante), che riflette sul cambiamento delle epoche - accavallate -, scegliendo una regia costantemente presente, ma forse un po' troppo pressante. Come dire, quando la tecnica supera il valore della narrazione.

Movieplayer.it
3.0/5
Voto medio
N/D

Perché ci piace

  • Gregory Gadebois, un grande attore.
  • Gli ultimi venti minuti.
  • Il contesto.

Cosa non va

  • La durata.
  • L'eccessiva e ridondante tecnica.