Ognuno ha diritto ad amare è un film strano quanto interessante, controverso quanto coraggioso, e non sorprende che arrivi in sala dopo un paio di rinvii e un cambio di titolo rispetto all'originale Touch Me Not con cui l'avevamo conosciuto al Festival di Berlino lo scorso anno. Proprio lì, nella capitale tedesca, il film di Adina Pintilie si era imposta sia come opera prima che come miglior film, aggiudicandosi il prestigioso Orso d'oro, ma sono stati premi, questi sì, sorprendenti, perché poco entusiasmo sembrava aver suscitato tra noi della stampa. Il motivo è semplice: per un film che predica apertura, tolleranza e accettazione, in un campo delicato come quello della sfera sessuale, finisce per respingere lo spettatore piuttosto che accoglierlo.
Ne avevamo parlato già lo scorso anno nella nostra recensione di Ognuno ha diritto ad amare, ma approfittiamo per riprendere l'argomento ora che il film è in uscita, nel giorno di San Valentino, proponendovi un resoconto della nostra interessante intervista con Adina Pintilie, che ci ha illustrato sia i presupposti che le scelte fatte relativamente alla sua opera, ma anche alcuni dettagli riguardanti la complessa lavorazione di un film che si pone a metà tra la finzione e il documentario.
Dietro le quinte di Ognuno ha diritto ad amare
La Pintilie ci tiene a sottolineare la natura ibrida di Ognuno ha diritto ad amare, affermando con sicurezza: "non lo chiamerei mai un documentario, è un'etichetta che rifiutiamo con tutte le nostre forze" per un film che è una miscela tra finzione e realtà. Un ibrido che ha richiesto una lavorazione lunghissima, iniziata con due anni di ricerca dei protagonisti, un processo "che non chiamerei casting perché non si tratta di un lavoro di fiction, ma della ricerca di persone disposte a seguirmi in un viaggio." Un processo lungo, estenuante, al quale è seguito il lavoro insieme che ha richiesto altrettanto tempo, fatto di ricerca e poi riprese, di montaggio e ritorno sul set. "Nel mezzo" ha spiegato la regista "abbiamo dato loro delle camere per lavorare a dei diari, ho dato loro dei compiti a casa riguardo l'intimità che avrebbero girato da soli." Una fase alla quale sono seguiti ulteriori confronti e discussioni, via Skype, registrate a loro volta. Una lunga lavorazione iniziata nel 2013, con prima fase di riprese nel 2015, durante la quale il gruppo ha fatto amicizia con la troupe ma soprattutto con la camera.
Un film molto diverso dal suo precedente, ma che parte dal medesimo metodo di lavoro portandolo più avanti. "L'elemento di finzione è molto chiaro" ha aggiunto "ma sono interessata a esso solo in quanto strumento per investigare cose reali e autentiche." La camera della Pintilie diventa quindi un testimone silenzioso, "un ponte", un mezzo attraverso queste persone offrono allo spettatore uno sguardo nel loro animo. "Molti dopo aver visto il film sono venuti da noi per raccontare le loro esperienze" e questo tipo di discussione è uno degli scopi del progetto. Abbiamo chiesto anche dello stile visivo del film, freddo, asettico, con una predominanza di bianco. "Lo abbiamo deciso fin dall'inizio ed è stata una vera sfida. Abbiamo creato fin dall'inizio le regole del gioco, un modo per presentarlo e riprenderlo, ma all'interno di questa struttura la realtà ha giocato il suo ruolo fondamentale."
Il percorso terapeutico
Abbiamo interrogato la regista anche sul senso del film, se si potesse intendere come un'esperienza terapeutica. "Quando si attraversa un percorso psicoanalitico," ha spiegato, "non si guarisce da una malattia, ma piuttosto si re-impara a relazionarsi con essa. In questo senso è una terapia." Un processo terapeutico in cui l'autrice ha incluso in qualche modo anche sé stessa. "Sono nel film più come guida emotiva, ciò che muove questa ricerca." Una ricerca dalla quale ha imparato molto. "Quando avevo vent'anni pensavo di sapere tutto sull'intimità, mentre ora mi rendo conto di non sapere nulla. Sono parte del processo, ma il focus di questo percorso non è su di me." La Pintilie ci tiene però a sottolineare come il film non sia un testo sulla psicologia e che figure come Freud non sono le uniche ad aver affrontato questo argomento. "Un testo che ha avuto un impatto maggiore su questo film" ha spiegato "è Arousal di Michael Bader, che ha affrontato come il comportamento sessuale possa essere chiave per esplorare aspetti più profondi della personalità, che possono essere legati ad altri aspetti di sé stesso che vanno al di là dell'atto sessuale." Un aspetto che considera importante anche per relazionarsi agli altri e alle diversità, soprattutto in tempi di crescita delle ideologie di destra.
La bellezza e l'accettazione
Ognuno ha diritto ad amare si interroga anche sul concetto di bellezza, chiedendosi cosa sia e da cosa derivi. "Penso che la percezione della bellezza sia molto soggettiva" ha spiegato la regista, "i personaggi del film non sono solo belli, ma affascinanti da tanti punti di vista. Siamo educati a un certo tipo di bellezza, che l'intimità debba essere di un certo tipo, che la sessualità debba funzionare in un certo modo, ma il film mette in discussione tutto questo. Non dice che una cosa sia meglio di un'altra, non offre nessuna soluzione o definizione, ma apre nuove prospettive al riguardo." Da questo punto di vista è un invito alla comprensione e accettazione, che derivano dall'apertura e la conoscenza. Concetti che Adina Pintilie non ha intenzione di abbandonare e considera il film un processo in divenire. "Stiamo già pianificando il prossimo," ha anticipato "la radiografia di una relazione in un periodo di tempo lungo. Con lo stesso metodo osserviamo delle coppie per un lungo periodo di tempo, perché è sulla lunga distanza che si può analizzare l'impatto del tempo che passa su un rapporto." Ci aspettiamo un altro film che faccia discutere quanto Touch me Not, ma la sensazione è che si dovrà aspettare ancora molto tempo.