Occupare, resistere, produrre
"L'Argentina non è un paese del terzo mondo. L'Argentina è un paese ricco che è stato reso povero."
Nel 1989 Carlos Menem vince le elezioni presidenziali e impone quella che lui stesso chiama "un'operazione senza anestesia". La politica di Menem, basata su tagli alla spesa pubblica e privatizzazione dell'industria nazionale, fa dell'Argentina il paese modello del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. Mentre il PIL raddoppia il tasso di disoccupazione sale dal 6% al 18% e I lavoratori vanno in cassa integrazione. Gli scandali per corruzione sono all'ordine del giorno e il debito pubblico aumenta, mentre FMI e Banca Mondiale continuano a prestare denaro per coprire gli interessi dei prestiti precedentemente concessi. La situazione è grave.
Nel 1996, nel giro di una sola notte, le banche e gli investitori stranieri portano via quaranta miliardi di dollari in contanti. Il governo blocca i conti dei risparmiatori. Il debito pubblico è azzerato. Le regole del capitalismo sono ribaltate dall'interno. La crisi è più nera di quanto non prospettassero le previsioni più pessimistiche.
La Bruckman, un'azienda tessile, e la Zanon, che produce ceramiche da arredamento, sono le prime fabbriche in cui si sperimenta una nuova via alternativa alla chiusura e alla dismissione: gli operai occupano gli stabilimenti, si oppongono alla vendita dei macchinari e delle attrezzature e cominciano un'esperienza di autogestione ispirata dal motto "occupare, resistere, produrre". Ciascuna con le proprie linee guida, decise rigorosamente in assemblea e a maggioranza, altre fabbriche ben presto si uniscono al movimento. Cliniche, scuole, cantieri navali, industrie alimentari, realtà diverse con diverse esigenze, ma unite dallo stesso fermo convincimento: attraverso l'eliminazione degli sprechi e la riduzione del profitto è possibile continuare a produrre, anche all'interno di un sistema capitalista.
Naomi Klein e Avi Lewis scelgono di testimoniare il percorso della Forja San Martin, un'officina meccanica sulla via del fallimento. Adottando un punto di vista ravvicinato e emotivamente coinvolto, ma senza perdere mai di vista la globalità e la complessità del movimento, The Take racconta le storie di padri di famiglia, giovani che avevano ormai perso ogni speranza, anziani operai, irriducibili mogli, alle prese con curatori fallimentari, decisioni di tribunali, frustranti ostacoli burocratici, la minaccia concreta della repressione violenta da parte della polizia, con un solo grande obiettivo: continuare a vivere del loro lavoro, di quello che sanno e vogliono fare, senza l'aiuto dei padroni. Si organizzano, si autotassano, si assicurano l'appoggio della popolazione locale, intrecciano rapporti con altre aziende che stanno vivendo la loro stessa situazione intessendo una rete di reciproco sostegno. Una ricetta rivoluzionaria fatta di piccoli passi, che rifugge dalle seduzioni utopistiche delle ideologie e liquida la politica come un fatto secondario, estraneo alle loro reali necessità.
Un film profondamente rispettoso dei suoi attori, mai invadente, che sceglie di non soffermarsi sulla pornografia della protesta, di non indugiare sugli scontri, sui feriti, sulle cariche della polizia, per esaltare invece le potenzialità e le peculiarità di un progetto partendo dai suoi elementi fondanti: le persone che vi partecipano.