Recensione The Nude Restaurant (1967)

Non una pietra miliare della storia del cinema ma una chiave di lettura fondamentale per comprendere i tumulti creativi, di coscienza ed espressivi di un preciso movimento artistico degli anni Sessanta.

Nude chiacchiere

Siamo nel periodo delle contestazioni, o meglio, un anno prima che le manifestazioni, gli slogan, gli scontri e la guerra, i colori, la musica e le droghe, si cristallizzano diventando Storia nella fatidica data del 1968. Siamo quindi nel 1967 immersi nella cultura americana rappresentata dai personaggi più sfaccettati, estroversi del periodo, quelli della Factory, e quindi Andy Warhol e l'entourage che ne segue. Niente east coast ma New York, la città che non dorme mai nell'incanto critico, disilluso/disinteressato e scanzonato di un gruppo di amici denudati dai tradizionali costumi, non solo metafora ma fatto reale, visibile, tangibile in The Nude Restaurant di Andy Warhol, appunto, e dell'inseparabile (almeno per un periodo) e fedele aiuto Morrissey.

Nell'impeccabile Warhol's touch, assenza di qualsiasi struttura narrativa, libertà interpretativa degli attori e set "in vero", entriamo in un atipico restaurant, simbolico e profetico nel nome, Il cappellaio matto, dove chi lavora e chi consuma è fisicamente nudo, espediente usato per evidenziare l'agio e la libertà espressiva raggiunta, capace ciò di liberare anche i ricordi, le memorie, le angosce e confessarsi davanti ad una mdp circondati da individui annoiati dalle ciarle altrui, desiderosi e in attesa del loro momento di gloria, monologo un po' frivolo un po' serio. Si alternano diversi personaggi, diverse memorie/ricordi e quindi diverse esperienze, diverso modo di esprimere il proprio impegno politico. E se a turno i protagonisti non fanno che criticare gli hippie, gli impegnati contestatori, apparendo magari al di fuori, appunto, della politica, il fatto di essere nudi, cioè aver raggiunto una libertà sessuale, è di per sé un fondamentale gesto politico, precisando che è una conquista ottenuta in anticipo, nell'arte e non nell'impegno. La mdp è quasi immobile in primi piani griffithiani, si sposta al limite della percettibilità solo per mostrare che Viva non parla soltanto con chi riprende (e quindi chi vedrà), ma anche con chi ha attorno, inizialmente solo l'androgino e poetico Taylor Mead. Non graffia come quella di Godard in One plus one, ma dà sfogo al flusso di coscienza di chi viene attratto dall'obiettivo. Il primo monologo, abbastanza lungo, probabilmente il più lungo della storia del cinema (circa un'ora), è quello della Jane Fonda della Factory, Viva Superstar (Janet Susan Mary Hoffman), "chiunque abbia più di trent'anni è rimasto imprigionato in questo bagaglio di cultura freudiana, europea, americana, femminista, eterosessuale, molto eterosessuale. E per come la penso io, i supereterosessuali sono semplicemente dei sadomasochisti". Il sesso è il sempre presente, è traccia di unione tra i vari argomenti affrontati, spesso in modo scanzonato; Viva inizia parlando di acconciature non convenzionali, distruttrici di un'immagine sacra (la propria), fosse quasi un'esperienza sessuale andata male, paragonata addirittura ai campi bruciati in Vietnam dalla violenta guerra avvertita anche in quel piccolo angolo anfetaminico di mondo occidentale.

Il sesso, la moda, la guerra, la politica, tutto ridicolizzato e attuale, così come le memorie adolescenziali di preti pedofili affascinati dall'incantevole e regale (anche da nuda) Viva, emblema del contrasto tra i residui di una educazione repressiva (fortemente cattolica) e una necessaria liberazione istintuale del corpo. Da Viva a Taylor Mead, non più spento ascoltatore ma vivace, comico e allegro poeta, cantante e musicista improvvisato di fisarmonica. Il suo ruolo però assume importanza quando si contrappone alla figura muta (per ¾ ) e carnale del film, Julian Burroughs. Lui rappresenta l'impegno politico, l'attivista che brucia le cartoline della leva e spiega le sue ragioni a un Taylor Mead, maggiormente interessato alla carne (e quindi al piacere) del giovane e "alla difesa dei diritti personali" invece che civili.

Tra le immagini e le parole è evidente notare i riferimenti letterari, il primo, ben presto abbandonato, di The Naked Lunch (Il pasto nudo) di William Burroughs, così come le 60 pagine finali de l'Ulisse di James Joyce, il monologo di Molly Bloom. Tutti questi spezzettoni di parole sono tra loro divisi da veloci passaggi abbaglianti, strobe-cut, tecnica che consiste nel montaggio di pochi fotogrammi bianchi tra due riprese, in modo tale da creare un effetto simile al flash fotografico, quasi a voler rimarcare la volontà del regista di rendere questi momenti ben incisi nella chimica, quasi immortali, testimonianza antropologica insolita e originale di un gruppo di artisti in un determinato periodo storico.
The Nude Restaurant, che Andy Warhol realizza in un giorno in ben due versioni, sia al maschile, sia al femminile, montate in un unicuum finale, non è una pietra miliare della storia del cinema ma una chiave di lettura fondamentale per comprendere i tumulti creativi, di coscienza ed espressivi di un preciso movimento artistico degli anni sessanta. Inoltre qui affronta per la prima volta, ma sempre in modo frivolo, quasi idiota, un atteggiamento che caratterizza qualsiasi consumatore di qualsiasi periodo, il fenomeno sociale delle droghe. Il periodo della contestazione dallo sguardo parlante di chi contesta, o meglio critica, e non protesta in piazza.