Non bussate a quella casa
Tante sono le pellicole che ci hanno mostrato la famiglia come nido di malessere, nel quale si finisce per covare un'inquietudine che resta invisibile all'esterno finché non deflagra in tutta la sua potenza. Ursula Meier nel suo nuovo film, Home, il primo per il cinema, prosegue questa analisi con tocco garbato, mantenendosi in un solco di credibilità nonostante una tensione al surreale che la storia pare contenere in potenza. Addirittura dodici le mani che l'hanno scritta, e le sbandate dello script, soprattutto nella seconda parte, probabilmente vanno imputate alle troppe idee sul tavolo, difficilmente accordabili tra loro. Home parte infatti come una sorta di favola da mondo incantato per poi trasformarsi in un vero e proprio horror della contemporaneità, che non solo rivela la tortura del quotidiano nella dimensione più intima della famiglia protagonista, ma si lascia andare anche a una critica sottile verso questo mondo moderno perennemente in corsa, ma vicino al precipitare. Il mugugno ecologista e il senso distorto di socialità sono però privi di mordente e raffreddano un racconto non privo di fascino.
Grazie al prezioso supporto di Agnès Godard, autrice di una fotografia che sfrutta al meglio la luce naturale e sa dare il giusto risalto ai colori del paesaggio, la Meier organizza per i personaggi (una coppia con tre figli) un'isola felice, rappresentata da una casa in mezzo al nulla, ai bordi di un'autostrada mai entrata in funzione. La distanza dalla società e dal rumore metropolitano li ovatta in una serenità apparente, nella quale comunque non mancano elementi di disturbo (la trasgressività della figlia più grande, sempre pronta a spogliarsi e a consegnarsi ai raggi del sole, per rimarcare un'ulteriore distanza con lo stesso nucleo familiare) ma a dominare è una spensieratezza un po' colpevole che monta un'inevitabile rabbia nei confronti dei pericoli che dall'esterno possono turbare quella tranquillità che dalle parole della madre pare raggiunta dopo aver tanto faticato. Quando la strada viene asfaltata e le macchine prendono a sfrecciare, i fragili equilibri si spezzano e la favola si tramuta in incubo, con la famiglia che cade vittima di un'autentica ossessione, finendo col murarsi viva in casa per proteggersi dal rumore incessante dei motori. Da qui in poi, il film perde i colori del mondo e sfiorisce in un agonizzare claustrofobico che amplifica le nevrosi dei membri della famiglia, impegnati a sfuggire al confronto con l'esterno ma consapevoli che la solitudine oggi non è più un'ipotesi concepibile. Condannata ormai al personaggio della nevrotica, la pur brava e incantevole Isabelle Huppert sciupa paradossalmente le potenzialità del suo ruolo proprio quando i nervi vengono a cedere, e la sua mamma terrorizzata dal progresso che bussa alla sua porta sembra fare il verso a quanto già interpretato in precedenza. L'accartocciarsi su sé stessa della famiglia è una soluzione, cinematograficamente parlando, abbastanza scontata, mentre la questione sarebbe stata più vibrante se si fosse concesso un degno confronto con le tentazioni del mondo esterno. Anche perché, quando il film sembra destinato a morire della stessa fine dello straordinario The Seventh Continent, cupissimo capolavoro di Michael Haneke, la Meier cede clamorosamente allo spiraglio della speranza e fa picconare ai sopravvissuti quest'inquietudine paralizzante, risputandoli nel mondo, consegnandoli a un punto zero e a una vita da rifare da capo. Resta solo da capire se l'incognita dell'ignoto conceda più sollievo dell'autodistruzione.