Recensione Una cosa chiamata felicità (2005)

In contrasto con una fotografia grigia e dalle luminosità naturali e con le vicende spesso drammatiche che interessano i protagonisti, 'Una cosa chiamata felicità' è un inno alla speranza mai morta.

Nella terra della speranza

Gradevolissima sorpresa questoUna cosa chiamata felicità.
Già vincitore del premio per il miglior film al festival di San Sebastian e per il premio alla migliore sceneggiatura ad Europacinema, la seconda opera di Bohdam Slama (regista e sceneggiatore del film) è un film lieve e dalle atmosfere a tratti fiabesche. In contrasto con una fotografia grigia e dalle luminosità naturali (opera di Kristian Suda) e con le vicende spesso drammatiche che interessano i protagonisti, Una cosa chiamata felicità è infatti un inno alla speranza mai morta.

Nell'ambientazione un po' tetra dei casermoni post-comunisti e dell'industrializzazione che avanza a inglobare tutto quello che fu, la storia segue infatti le vicende dei tre protagonisti, Tonik (un fantastico Pavel Liska) in lotta contro "il progresso" per conservare valori che forse solo lui ricorda, Monika dal grande cuore (Tana Vilhelmova) e la giovane madre Dasha (Anna Geislerova) ormai sull'orlo della pazzia. Una cosa chiamata felicità è la storia dei loro sforzi per cercare di mantenere insieme una comunità, partendo da una coppia di bambini da accudire e da una casa da ristrutturare. Ma soprattutto è la storia di un sentimento in divenendo, e cioè il sentimento di amicizia fra Tonik e Monika che si trasforma di giorno in giorno, ma che non si traduce di fronte ai nostri occhi in gesti concreti.
L'autore è infatti bravissimo a creare una pellicola in cui i sentimenti non sono mai sbandierati, ma bensì trattati spesso con una sorta di pudore, coadiuvato da interpreti dalla recitazione molto naturale e mai gigionesca.

In questo modo Slama riesce, a dispetto degli spunti spesso drammatici della sceneggiatura, a non trascinare lo spettatore nel territorio del melodramma strappalacrime, ma anzi a suscitare sentimenti di tenerezza e comprensione anche per i personaggi apparentemente più biechi, e a far aleggiare una sensazione di speranza senza ammanirci il classico happy end.
Scommessa riuscita per un'opera atipica e che conquista con sua interna leggerezza.