Recensione Slipstream - Nella mente oscura di H. (2007)

Hopkins percorre l'esile linea che separa la realtà dalla finzione, richiama tutta la sua esperienza nelle immagini impazzite che si susseguono sullo schermo, per rendere conto di come l'attore resti talvolta imprigionato nel personaggio che interpreta.

Nella mente indecifrabile di Anthony Hopkins

Delirio metacinematografico di Anthony Hopkins, Slipstream - Nella mente oscura di H. si presenta allo spettatore come un prodotto difficilmente decifrabile, una follia antinarrativa che, come tradisce il titolo italiano, prende vita essenzialmente nella mente del protagonista, uno sceneggiatore alle prese con la riscrittura di un copione che vede i personaggi ribellarsi alle costrizioni della trama per vivere di vita propria, portando la storia in posti oscuri e inaspettati. L'azione prende luogo per lo più in un deserto dove si muove una processione di figure che si nutrono di cinema, impegnata in una disquisizione logorroica e delirante sull'illusione della vita, sul cinema dimenticato, sulla morte, sulla diversa presa di coscienza dei vari protagonisti che confezionano un film: l'attore, il regista, lo sceneggiatore, e tutti coloro che ruotano intorno la macchina cinema. Hopkins percorre l'esile linea che separa la realtà dalla finzione, richiama tutta la sua esperienza nelle immagini impazzite che si susseguono sullo schermo, per rendere conto di come l'attore resti talvolta imprigionato nel personaggio che interpreta.

Film che ambisce allo sperimentalismo di David Lynch ma ne lambisce solo la superficie, riproponendo un caos narrativo e visivo che intende stimolare più che raccontare, Slipstream si scontra con gli evidenti limiti di un cinema ombelicale che propone diversi piani interpretativi rifiutando di guidare lo spettatore, ma lasciandolo libero di perdersi nel labirinto di input provenienti dallo schermo. Dietro la tensione avanguardista, i significati vanno a nascondersi nel bombardamento di immagini e parole destinate spesso a restare intrappolate nel proprio bunker. Naturalmente in questo genere di film, il tempo diventa una componente fondamentale. Qui è una continua alternanza di prima, adesso e (forse) poi, che sta bene attenta a non farsi mai scoprire del tutto, che gioca con la nostra capacità di afferrare e decifrare i fotogrammi, suggerendo per bluffare un attimo dopo. Un gioco che spesso risulta più godibile per chi crea che per chi ne fruisce.

Sul film pesa probabilmente il fatto di essere stato realizzato tutto in famiglia. Hopkins è, infatti, regista, sceneggiatore, attore e compositore delle musiche del film, mentre a produrlo è sua moglie Stella Arroyave che del film è anche interprete. Hopkins ha di fatto avuto il controllo sul montaggio, lasciando che il caos della sceneggiatura fosse amplificato e non controllato una volta tradotto in immagini. Sogno e realtà si traducono in una pellicola surreale che si fa onirica riflessione sui limiti entro i quali ci troviamo a vivere, sulla nostra percezione del tempo e di come passato e futuro siano intimamente collegati. Echi di Otto e mezzo del nostro Fellini si intrecciano a un continuo richiamo a L'invasione degli ultracorpi (tra gli attori presenti nel film anche Kevin McCarthy che interpreta se stesso) mentre una moltitudine di flash si insinuano nell'azione, in cui fanno capolino figure come Hitler, Nixon e immagini della guerra in Vietnam. Un caos poco intelligibile quello proposto da Hopkins, che nell'obiettivo di realizzare l'opera di una vita s'intrattiene troppo di fronte allo specchio, ad ammirarsi e dirsi bravo da solo.