Recensione Tokyo Godfathers (2003)

Nonostante la trama squisitamente natalizia, quasi dickensiana e addirittura disneyana in senso ultraclassico, inevitabilmente sentimentalistica, il rischio di melensaggine è abilmente e fortunatamente scongiurato.

Natale a Tokyo

Inserito nella lista dei 10 migliori film del 2004 dal critico del New York Times A.O. Scott, arriva finalmente (ma inevitabilmente in sordina) nel nostro paese Tokyo Godfathers, ultimo anime realizzato da uno dei nuovi maestri del cinema d'animazione giapponese, Satoshi Kon.
Ispirato ad un western di John Ford dal titolo In nome di Dio, Tokyo Godfathers racconta un'insolita favola di Natale, piena di buoni sentimenti ma mai stucchevole.
Protagonisti di questa storia sono coloro che solitamente vengono considerati gli emarginati (o gli "invisibili", come ora va di moda dire), tre homeless della capitale nipponica: Gin, soprannominato lo "scimmione" per i suoi modi rudi e spicci, Hana, un omosessuale con desiderio di maternità, e Miyuki una ragazzina scappata di casa. La sera della vigilia di Natale, rovistando tra i rifiuti, i tre trovano una neonata abbandonata: se ne prenderanno cura amorevolmente per tutta la notte, e dal giorno di Natale daranno il via ad una vera e propria odissea per ritrovarne i genitori, vincendo il loro desiderio (egoista e altruista al tempo stesso) di tenerla con loro e crescerla come una figlia.

Con una trama del genere, squisitamente natalizia, quasi dickensiana e addirittura disneyana in senso ultraclassico, inevitabilmente sentimentalistica, il film correva il rischio di risultare eccessivamente melenso, ma come detto questo rischio è stato fortunatamente scongiurato da una classe di concause che ora andremo ad esporre. Innanzi tutto nel raccontare questa favola di Natale e le vicende di questo nucleo familiare (insolito ma ben più funzionale di molti altri, sembra dire il film) Satoshi Kon prende a modello il sentimentalismo e il romanticismo idealista tipico di titoli come Angeli con la pistola, La vita è meravigliosa e molti altri del grande Frank Capra, con il risultato di commuovere senza far ammalare di diabete lo spettatore. E a stemperare ancora di più i momenti dove l'emotività rischia di farla eccessivamente da padrona, Satoshi fa suo lo spirito anarchico rispetto al genere di gran parte del cinema orientale e anche di alcuni anime, costellando il film di momenti legati alla comicità slapstick virata all'humor nipponico, e da elementi e situazioni prese dal thriller, dal giallo e dall'action movie più scatenato.

Se tutto questo già non bastasse ad evitare il rischio melassa, un altro elemento che concorre fortemente è il grado di realismo, oggettivazione e solida concretezza dato da una messa in scena che rende la città di Tokyo e i suoi costrutti architettonici dei veri e propri protagonisti della narrazione. I luoghi e i palazzi della capitale del Giappone si ergono nel film come silenziosi e impassibili spettatori di quella che abbiamo definito una piccola odissea, e alla fine del film rivelano esplicitamente la loro natura di personaggi agenti nella narrazione, partecipando attivamente alla realizzazione del lieto fine e prendendo animisticamente vita prima dei titoli di coda, quando i grattacieli dello skyline cittadino si muovono e danzano al ritmo di un "Inno alla gioia" riletto in chiave nippo-elettronica, dando vita ad un finale folle e quasi lisergico.

Tokyo Godfathers, sia dal punto di vista narrativo che da quello tecnico-realizzativo, è un ottimo anime, sicuramente non paragonabile ai capolavori di personaggi come Miyazaki, Otomo e Oshii ma che appassionerà chi già ha dimestichezza col genere e interesserà quanti lo vogliono approcciare.
In conclusione, vorremmo consigliare un recupero: nel suo raccontare il Natale dei "diseredati", il film di Satoshi ci ha ricordato un piccolo cortometraggio d'animazione in stop motion dal titolo The Junky's Christmas, tratto da un racconto di William Burroughs, la cui visione vale tutti e 22 i minuti della sua durata.