Mira Nair è a Roma per presentare il suo nuovo lavoro, Il destino nel nome - The Namesake, un adattamento dal romanzo L'omonimo della pluripremiata scrittrice anglo-indiana Jhumpa Lahiri. Con lei la sceneggiatrice Sooni Taraporevala e la splendida protagonista Tabu.
Mira Nair, come nacque l'idea di realizzare questo film?
Mira Nair: Lessi il romanzo praticamente per caso su un areo, in un momento molto triste: avevo appena perso una persona che mi era molto cara, quasi una seconda madre, ed ero stata costretta a seppellirla in un paese straniero. Avevo già amato il primo romanzo di Lahiri, e The Namesake l'avevo già da mesi prima di decidermi a leggerlo: in quel momento, mi sono sentita molto toccata da una storia che mi era vicina e che chiamava in causa proprio le due città in cui ho passato la maggior parte della mia esistenza, Calcutta e New York. Affidai la sceneggiatura a Sooni, con cui siamo vecchie amiche, e finita quella otto mesi dopo stavamo girando.
Sooni Taraporevala: Sono stata felicissima della proposta di fare questo film, avevo già letto il libro e pensai subito che fosse il progetto giusto per noi. Anche io ho studiato in America, nel Massachussetts, e sento molto vicino l'argomento. Noi poi eravamo in una posizione particolarmente vantaggiosa, essendo in grado di riconoscerci in tutte le generazioni protagoniste del libro.
Nair, nel film sono presenti molte analogie con la sua vita, anche se lei non è andata a New York da sposa ma per studiare. Ci vuole dire qualcosa sulla condizione della donna in India, dove le ragazze sono ancora maritate secondo il volere dei genitori?
Mira Nair: No, decisamente io non ero la candidata ideale per un matrimonio combinato, mi hanno sempre chiamato con un soprannome che significa "la ragazza folle". Molti miei conoscenti però hanno matrimoni combinati, non bisogna pensarvi come ad una sorta di schiavitù, è anche possibile dire di no. In India il matrimonio è concepito come un grande cambiamento, e i genitori cercano per i figli una nuova famiglia non troppo lontana e non troppo diversa, dove non siano spaesati. Inoltre a me interessa l'idea della possibilità erotica dell'innamorarsi di uno sconosciuto: è una cosa di cui credo di aver parlato in The Namesake, grazie agli ottimi interpreti che ho avuto a disposizione.
Certo, la mia esperienza di vita si riflette nel film, ad esempio c'è il fatto che sono stata sposata per molti anni con un cittadino americano e spesso non mi riconoscevo in quella cultura. Mi capitava - e mi capita ancora - di deprimermi terribilmente durante le festività tradizionali; ricordo un 4 luglio in cui stavo preparando gli hot dog e mi ritrovai a pensare "Ma che ci faccio qui? Sono veramente io?" E' il senso di alienazione che ho cercato di trasmettere a Gogol, quello che si percepisce nella scena in cui lui riceve la telefonata della sorella che lo avvisa della tragedia che ha colpito la famiglia, e la sua ragazza e i suoi genitori sono nella stessa stanza a parlare di decorazioni per la casa.
Tutti i suoi film parlano della famiglia e di scontri di genereazioni e culture, che sono argomenti amati anche dagli scrittori del Commonwealth. Si ispira al loro lavoro?
Mira Nair: La letteratura del Commonwealth è una fonte inesauribile di ispirazione per me, perché parla di cose in cui le persone come noi possono riconoscersi, parla delle nostre stesse esperienze; il mio libro preferito in assoluto è A Suitable Boy di Vikram Seth. Sono scrittori che mi rendono la vita molto più facile come cineasta.
Avete incontrato difficoltà nella stesura della sceneggiatura per rimanere fedeli al romanzo?
Mira Nair: Nel complesso l'adattamento è rimasto molto vicino al libro e al suo spirito, anche se devo dire che ho preso anche alcune idee dal romanzo precedente di Jhumpa Lahiri, Interpreter of Maladies.
Certo, è una vera sfida cercare di trasformare una storia che copre trenta anni in un film di due ore, abbiamo dovuto prendere qualche decisione dolorosa e abbiamo anche fatto qualche aggiunta per dare senso di coesione: ad esempio è mia l'idea che Ashima sia una cantante. E' molto comune che nelle famiglia indiane si canti - o si legga o si dipinga - e Ashima come madre americana si trova a poter cantare solo le ninnenanne ai suoi bambini: la musica diventa la voce della protagonista, che le viene restituita per dimostrare che non era una persona sconfitta. Di Sooni è invece l'idea di fare rasare Gogol da un barbiere di Harlem: là dove ci si rade la testa per moda, lui lo fa per rispetto. Mi ha molto commosso quella scena quando ho letto per la prima volta lo script. E' uno di quegli elementi che servono a mostrare le insormontabili differenze tra i due mondi, come quando la ragazza di Gogol va alla cerimonia funebre vestita di nero, quando invece il colore del lutto in India è il bianco.
Sooni Taraporevala: E' stato un lavoro stimolante e impegnativo perché nel romanzo non c'è un vero e proprio svolgimento, avremmo dovuto creare un plot o seguire solo Gogol lasciando il resto sullo sfondo, ma noi volevamo ogni cosa che c'era nel libro e non era facile: ci sono personaggi che vanno e vengono magari restando solo per qualche scena, e questo può sembrare strano, ma era il nostro modo di essere fedeli al libro. Inoltre la storia è molto intima e interiore e non ha uno svolgimento classico. Abbiamo fatto il possibile e credo che siamo riuscite nel nostro intento.
Mira Nair: Io ho cercato di creare la mia personale transizione sovrapponendo le due città, New York e Calcutta, fondendo gli elementi architettonici e i fiumi e gli alberi per sovrapporre i due mondi; come quando Ashima guarda fuori dalla finestra dell'ospedale e invece dell'Hudson vede il Gange, e così si sente di nuovo vicina alla sua famiglia.
Tabu, qual è stato il suo apporto personale al personaggio di Ashima?
Tabu: Io ho cercato di contribuire dando tutto quello che avevo al film; non ho l'esperienza della maternità, ma mi sono ispirata al rapporto con mia madre identificandomi con il suo punto di vista. Prendo sempre in giro mia madre sulla sua pronuncia o sulle cose che dimentica. Noi pensiamo che i nostri gentitori non sappiano niente, ma sanno certo più di noi.
Ho diverse sorelle e cugine che sono emigrate in USA e potevo attingere a quella esperienza, ma è l'aiuto di Mira che è stato fondamentale, anche se solo rivedendo il film ho capito tutto quello che voleva dire, perché mi diceva di parlare con un certo tono quando interpretavo la Ashimi ventenne, con uno diverso quando ero la Ashimi quarantenne...
Nair, lei ha lavorato in India, in America e in Inghilterra, che differenza c'è?
Mira Nair: In india devo orchestrare il caos e dargli forma. In America devo creare il caos, la vita nel mio obiettivo. In inghilterra è difficile quando una donna vestita con abiti tradizionali deve dire a degli uomini cosa devono fare.
Gli attori sono attori ovunque, e io amo la loro professionalità; da regista cerco di creare sicurezza e fiducia anche se sappiamo che possiamo sbagliare insieme, preferisco che corriamo dei rischi: quei rischi che portano in vita davvero quello che si sta facendo.
Il cinema indiano diventerà il più importante del mondo?
Mira Nair: Il cinema indiano è già il maggiore al mondo, è l'occidente che ha tardato ad accorgersene. In India si fanno film da cento anni, ma solo negli ultimi cinque si è iniziato a capire il fenomeno che viene tristemente definito "Bollywood".