Se c'è un nome che, più di ogni altro, ha rappresentato il cinema comico di Hong Kong a cavallo tra gli anni '70 e '80, questo è sicuramente quello di Michael Hui. Attore, regista e sceneggiatore prolificissimo, spesso impegnato sul set accanto ai fratelli Ricky e Samuel, Michael Hui è l'emblema di un cinema cantonese che sta progressivamente scomparendo, fagocitato da un lato dalle influenze occidentali e dall'altro da quelle della madre patria cinese, che ne hanno inesorabilmente compromesso la specificità culturale. Di questo, e di altri temi, Hui ha parlato nell'incontro che abbiamo avuto con lui durante la tredicesima edizione del Far East Film Festival, che gli ha dedicato un'interessante retrospettiva.
Quali sono state, a inizio carriera, le sue influenze principali nell'ambito della comicità occidentale?
Michael Hui: Sono state molteplici, a cominciare dai classici di Charlie Chaplin e Harold Lloyd, ma anche attori più moderni come Woody Allen, Jim Carrey e Mike Meyers. Sono attori che hanno stili di recitazione diversi, ma ad accomunarli c'è un tipo di comicità molto visuale, basata più sulla gestualità che sulle parole.
Tra le sue influenze c'è anche quella di Jacques Tati, citato esplicitamente in una scena di Chicken and Duck Talk?
Mi piacciono molto i film di Tati che riguardano il lavoro, anche lui è un autore molto visuale, che basa la sua comicità sulle azioni più che sulle espressioni. Il suo è un umorismo universale; io non giro un film da tanto tempo, ma anch'io vorrei, nel prossimo futuro, tornare a girare una pellicola basata su una comicità che sia solo visuale.
In questo momento ho due progetti in sviluppo, più un altro che sarà il seguito di Chicken and Duck Talk. Mi interessa molto l'influenza dell'occidente sul cibo cinese, l'invasione dei MacDonald e tutto quello che ne è derivato: io continuo comunque a pensare che la cucina cinese sia la migliore, ma volevo indagare su quale fosse la situazione attuale a riguardo.
Oltre alla comicità visiva, nei suoi film c'è spesso anche un elemento di critica sociale, dei temi politici. Il capitalismo viene spesso preso di mira. Si riconosce in questa impostazione?
I temi sociali ci sono, è importante dire certe cose attraverso i film, ma devo dire che quando inizio a girare un film non è quello il mio scopo iniziale. Semplicemente, vedo delle cose che non vanno bene nella società, e sono tante, e così tento di parlare anche di quelle nei miei film: penso che così i film stessi diventino più interessanti e più universali per il pubblico, oltre ad acquistare uno spessore maggiore.
Perché, secondo lei, la comicità di stampo cantonese ha sempre faticato un po' ad imporsi in occidente, a differenza di altri generi come quello delle arti marziali?
Il suo erede più accreditato, nel cinema di Hong Kong attuale, è sicuramente Stephen Chow. Cosa ne pensa dei suoi ultimi film?
Chow è bravissimo come attore e come comico, all'inizio faceva film molto rappresentativi della realtà di Hong Kong, ma adesso il suo linguaggio è molto più internazionale. Il fatto stesso che faccia anche film di kung fu fa sì che il suo sia un linguaggio più facile da capire: però i suoi ultimi film hanno perso un po' della specificità di Hong Kong, si occupano meno della realtà della nostra società.
Lei si sente sempre libero nelle sue creazioni, o è limitato dalle leggi di mercato?
La pressione del mercato non la sento molto, sinceramente. Quello che invece mi crea a volte disagio è fare contemporaneamente lo sceneggiatore, il regista e l'attore: spesso c'è una tensione tra questi diversi ruoli, magari come sceneggiatore inserirei nel film una battuta che invece come regista non userei. Però, rispetto alle pressioni del mercato, mi sono sempre sentito abbastanza libero e tranquillo.
Nei film in cui è stato attore e non regista, ha avuto libertà nel costruire le sue gag, o è stato sempre incanalato dalla visione del regista?
Non ho mai avuto problemi in tal senso, i registi mi hanno sempre lasciato molta libertà. Il problema di quando non sono regista, casomai, è che molti pensano che basti la mia presenza a far ridere il pubblico, disinteressandosi del contenitore, della qualità della sceneggiatura. Se in una sceneggiatura c'è una battuta che vale 70 punti su 100, un attore buono può trasformarla in una battuta che di punti ne vale 100, ma il valore di base della battuta deve comunque esserci! Per questo mi è capitato spesso di rifiutare dei ruoli che non ritenevo frutto di buone sceneggiature.
Che differenze trova tra il cinema di Hong Kong di cui lei è stato protagonista, e quello attuale?
Vede un'influenza della cinematografia di Hong Kong sul cinema hollywoodiano attuale?
A mio avviso l'influenza è reciproca: il cinema americano ci ha influenzato moltissimo nel corso degli ultimi decenni, ma anche noi abbiamo avuto la nostra influenza su di loro, basti pensare ai film di Quentin Tarantino; o ad alcune commedie, sia hongkonghesi che asiatiche, in cui spesso si vedono le nostre influenze reciproche. Ogni cinematografia, comunque, prende i temi di quella a cui si ispira e li adatta alla sua specificità: questo è quello che ha fatto in particolare Tarantino, specie nei suoi ultimi film.
In una carriera straordinaria, costellata di successi, ha anche qualche rimpianto?No, sinceramente non ne ho.