Arriva questa settimana nelle sale italiane La storia del cammello che piange, il fortunato documentario realizzato da Byambasuren Davaa e Luigi Falorni come film di fine corso alla Scuola di Cinema di Monaco che ha conquistato il pubblico di tutto il mondo ed è arrivato a un passo dall'Oscar. Girato nel Deserto del Gobi, il lavoro dell'esordiente coppia mongolo-italiana apre una finestra su una cultura lontana per parlarci di sentimenti universali come amore e solidarietà attraverso la storia di un cammello che rifiuta il proprio figlio e di una famiglia di nomadi che lotta per tenerli uniti.
Falorni, com'è nata l'idea di questo documentario?
Quando eravamo insieme alla Scuola di Cinema di Monaco, Byambasuren mi parlava spesso della sua terra, la Mongolia, e un giorno mi ha raccontato di questo rituale del risveglio, attraverso la musica, dell'istinto materno del cammello che rifiuta suo figlio, una cosa che mi ha entusiasmato per la sua particolarità, ma al tempo stesso per la sua portata universale. La sua lettura è la stessa in tutto il mondo, perché ci sono elementi di base che vanno oltre la singola cultura: il rifiuto, l'abbandono, la perdita dell'amore e il suo ritrovamento.
Non sarà stato facile trovarsi nel posto giusto al momento giusto per filmare un simile evento.
Il film ha rischiato di saltare più volte perché abbiamo incontrato grandi difficoltà. Siamo arrivati in Mongolia a marzo, ma abbiamo dovuto rimandare le riprese per due settimane perché non arrivavano i soldi della produzione. Come se non bastasse ci siamo ritrovati in balia di tempeste di neve e venti che soffiano alla velocità di 150 km/h. Quando abbiamo raggiunto l'accampamento della famiglia molti cammelli avevano già partorito. Siamo stati anche sul punto di mollare perché non riuscivamo a filmare quello che ci eravamo preposti e le cose sembravano andare a rotoli, ma poi la fortuna ci ha aiutato e il film è stato realizzato. Abbiamo scelto una famiglia che aveva tanti cammelli e abbiamo avuto modo di assistere a tante nascite, perché i cammelli partoriscono tutti nell'arco di un mese in primavera, e quello che vediamo nel film è stato proprio l'ultimo parto.
Siete partiti quindi per la Mongolia con un'idea ben precisa sul film che volevate realizzare.
L'idea di fondo era incontrare questa famiglia e capire anche insieme a loro che film fare. All'inizio avevamo una sorta di semi-sceneggiatura, poi abbiamo fatto una ricerca per raccogliere ulteriori informazioni e capire se questa storia che avevamo scritto poteva essere effettivamente realizzare. Devo dire che questa famiglia si è subito entusiasmata tantissimo al progetto e ci ha dato tutto l'appoggio possibile.
Cosa l'ha affascinata di questa famiglia?
Sono persone incredibili perché non mollano mai e il rimedio che propongono per ogni problema è la solidarietà, l'unione, l'essere pronti l'uno per l'altro, per chi si trova in difficoltà, sia esso un essere umano o un cammello. Questo forse è stato il fattore determinante che ha fatto sì che molte delle persone che hanno visto il film provassero una grande nostalgia per un tempo passato. Oggi siamo più individualisti e l'individualismo portato all'estremo ti lascia soli.
Nel film si parla anche di civilizzazione e degli effetti che questa ha sulle popolazioni nomadi, soprattutto sulle generazioni più piccole. Un passaggio obbligato?
Era impossibile fare questo film senza rapportarlo al presente, ma la nostra intenzione non era puntare il dito contro la civilizzazione. La città, per i bambini nati e cresciuti nel deserto, è un po' come Disneyland, piena di giochi come la televisione, le motociclette, i videogames e i gelati. La mia sensazione è che quella dei nomadi sia comunque una cultura forte, non facilmente occupabile, che sopravviverà nonostante televisione e motociclette. Certo ora il bisnonno, che prima raccontava le storie, con l'arrivo della tv ha perso il suo lavoro!
Perché i documentari sono tornati così di moda al cinema?
E' cambiato il modo di farli. Ormai i documentari si stanno avvicinando sempre più alla fiction. In tutti quelli che finiscono nelle sale c'è uno sforzo di raggiungere una narrazione attraverso i meccanismi della fiction, come suspense e dramma, per venire incontro alle esigenze del pubblico. Molti fra i documentari più belli sono opere prime, in cui spesso i registi parlano della propria famiglia, del proprio passato, e per questo non riescono più a ripetersi. Penso, per esempio, a Una storia americana di Andrew Jarecki. In America il boom del documentario si deve al fatto che nell'era Bush la realtà delle cose è così distorta che le persone sperano, attraverso i documentari, di capirci un po' di più di come va il mondo.