Lucrecia Martel presenta a Roma il suo secondo lungometraggio, La niña santa, il ritratto dell'adolescenza di una ragazza argentina in bilico tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Religione, rapporti interpersonali, santità e peccato: temi caldi per un film che vuole solo essere seme per la nascita di un pensiero, senza la pretesa di giudicare.
Il suo film affronta il tema della religione cattolica. Che rapporto ha lei con la religione?
Non è un film contro la Chiesa, ma su una ragazza che è stata educata in modo cattolico e ad un certo punto si relaziona con un uomo che la tocca per strada. Io come la maggior parte delle persone educate in modo cattolico sono credente ma non praticante. Quanto più ci si addentra nello studio dell'ideologia tanto più ci si allontana dalla pratica. Vorrei che il mio fosse visto non come un film sulla religione cattolica, ma sui rapporti interpersonali.
Come mai un titolo come La niña santa, e come le è venuta in mente questa storia?
Quando ho scritto questo film credevo sarebbe diventata una commedia. Nel film non ci sono gag, ma c'è un umorismo molto particolare. Il titolo è ironico, non perché la ragazza in questo film si masturba, si bacia con un'altra ragazza o si innamora di un uomo che la tocca. L'ironia non è nel fatto che questa ragazza è ben lontana da essere una santa. Nell'immaginario cattolico i santi sono martiri che soffrono, si torturano e alla loro immagine preferisco quella dei mistici che hanno col divino una relazione segreta che può diventare anarchia. Questo è quello che succede spesso anche nei giovani durante loro adolescenza. La passione può portare alla distruzione dei limiti e delle istituzioni. L'adolescenza che ho vissuto io aveva molte di queste componenti di passione, non era un racconto romantico.
L'origine della storia prende spunto da questo hotel termale a cui andavo quando avevo nove, dieci anni. Era molto sensuale, pieno di ragazze che fanno il bagno nelle acque termali. Per me la scrittura è un processo estremamente intimo e quindi approfondisco le cose personali. Non posso parlare di cose che non mi appartengono. Questo non significa che la storia sia autobiografica, ma che indubbiamente ha a che fare con la mia vita.
Il suo è un film a più livelli in cui non sembra esserci alcun giudizio su quello che viene mostrato. Perché la scelta di un distacco così totale?
Quando faccio un film mi chiedo quale sia il motivo che mi spinga a farlo. Non faccio film che vogliono veicolare un messaggio, quelli sono film di propaganda. Quello che voglio fare con i miei film è condividere un processo del pensiero. Ho bisogno di creare un ponte tra me e lo spettatore. Quando scrivo un personaggio mi baso su persone che ho conosciuto, cose che ho vissuto, suoni che ho sentito. Utilizzo tutti gli elementi per trasferire meglio questo pensiero. In un racconto classico c'è un inizio e una fine, ma non mi identifico in questo tipo di struttura. Per me è più importante la costruzione formale del film che rivela la creazione di questo processo del pensiero. Il finale è coerente con una mia forma di sentire, non è un momento di rivelazione e non ha un significato preciso. E' l'ultimo momento di un processo, ma non necessariamente il più importante.
Almodovar, qui in veste di produttore, ha influenzato in qualche modo la regia del film?
Penso che Almodovar sia un regista con uno stile ben preciso, che è meraviglioso, ma quando uno fa il produttore sa bene che l'autore del film deve mantenere la propria personalità e quindi Pedro non ha interferito affatto con il mio lavoro, limitandosi solo a finanziarlo.