Lo spartito della vita di Matthias Glasner, premiato all'ultima Berlinale per la migliore sceneggiatura, si apre con l'inquadratura in verticale della camera di uno smartphone di una bambina che lancia un appello allo spettatore. Un appello di speranza e fiducia nei confronti della vita e di noi stessi. Non sapremmo mai chi è, ma nel corso delle restanti tre ore di pellicole le ipotesi sono diverse.

L'intro assume una forma sempre più concreta man mano che i minuti scorrono non solo in relazione alle interpretazioni del contenuto, ma anche allo spirito di un film che è una continua rottura indiretta delle barriere cinematografiche. Essa si avverte quasi in ogni scena, suggerita dalla posizione della camera, dall'ordine nella ricostruzione degli eventi che coinvolgono i protagonisti e, soprattutto, dalla presenza di una riflessione sul senso dell'arte piazzata al centro di essi. Ci sono persino degli indizi sulle fonti d'ispirazione cinematografiche, in primis Bergman.
Non a caso la storia è largamente ispirata a fatti autobiografici di Glasner, che mette in scena (dicendolo esplicitamente) questa sorta di opera magna proprio per creare un tavolo di discussione con lo spettatore su quello che gli è capitato, le sue implicazioni e, persino, sul suo modo di raccontarlo. Ne esce un lungometraggio che mischia vita e morte, poli opposti e intrinsecamente connaturati intorno a quali prendono forme le relazioni essenziali che indirizzano i cicli delle nostre esistenze.
Famiglia Lunies e affetti

La storia de Lo spartito della vita è divisa in cinque capitoli e racconta degli anni decisivi per la famiglia Lunies. Un nucleo composto da due genitori anziani e gravemente malati che vivono da soli e due figli, Tom (Lars Eidinger), un direttore d'orchestra completamente dedito all'assistenza di una donna a cui è talmente legato da assisterla nel parto della figlia di un altro, anche se i due "non sono una coppia da più di dieci anni", e Ellen (Lilith Stangenberg), un'assistente di poltrona con una splendida voce e un cuore enorme, ma da tempo persona sul fondo delle bottiglie.
L'anaffettività è ciò che domina le loro relazioni, ma la presenza di un comune talento artistico (in gran parte musicale) dimostra come in tutti loro sia presente anche una grande sensibilità, che però rischia di divenire solamente un amplificatore per le loro sofferenze. I due che riescono ad opporsi a ciò sono Tom e la mamma, mentre Ellen e il papà sono coloro che alla fine si sono ammalati. La quantità di freddezza che pervade il fratello maggiore si riversa anche nelle discussioni con il suo amico Bernard (Robert Gwisdek), il compositore aspirante suicida dell'opera che i due devono portare alla ribalta e che risponde all'esemplificativo titolo di "Sterben" ("morire"), che è poi il titolo originale del film.

Egli è l'ultimo tassello del complesso mosaico che compone la pellicola e in un certo senso anche il suo collante, essendo colui che rappresenta il tramite attraverso la quale la sublimazione artistica è in grado di ragionare da una posizione privilegiata sulle esistenze di noi "povere scimmie" perché priva di doveri morali e coinvolgimenti emotivi. La sua unica ossessione deve essere quella di trovare la forma più corretta e sincera per esprimersi.
Lo spartito della vita e della morte

L'identificazione tra la composizione di Bernard e la pellicola in quanto totalmente dichiarata: Lo spartito della vita ha infatti tutti i tratti di un'opera polifonica in cui ognuno dei personaggi è uno strumento che è condannato a cercare il proprio posto in funziona degli altri, anche quando la sua stessa famiglia lo ha spinto all'isolamento emotivo. Un impresa non facile e che gli eventi possono addirittura rendere impossibile.
Glasner porta sullo schermo un racconto attraverso nascite e morti, avendo la cura di non lesinare nessun aspetto della vita, da quelli più estremi, crudi e sgradevoli a quelli più buffi e goffi. Un concentrato lungo e a tratti piuttosto faticoso, ma sempre, appunto, vitale. Nonostante la sua durata e la sua natura difficile, la pellicola è ricca di spunti, di situazioni e di volti e non risulta mai scontata, banale o prolissa. Non c'è mai un reale passaggio a vuoto e o un momento stantio. Sintomi, questi, di una grande architettura e di una gestione di tempi e ritmo egregia e sempre chiara.

La cosa che fa funzionare al meglio Lo spartito della vita, facendone risaltare i personaggi (ovvero il fulcro del film), è il rifiuto del sottinteso e del non detto, anche a costo di divenire palese. Il regista non si nasconde mai, anzi, non disdegna neanche di parlare direttamente al pubblico attraverso i battibecchi sull'utilità o meno di una traduzione artistica del reale e quindi, ipso facto, del suo stesso lavoro. E si dà anche una risposta, cosa tutt'altro che scontata.
Conclusioni
Lo spartito della vita è un'opera magna che ha una natura da composizione polifonica, nella quale ogni personaggio è un strumento, e la cui ambizione è riflettere su come l'arte possa raccontare in modo efficace l'esistenza di ognuno di noi in modo che possiamo rifletterci su. Un film ricco di spunti, crudo e a tratti persino respingente, che ha il grande pregio di non nascondersi mai, neanche di fronte al compito di mettere in discussione il senso del proprio essere.
Perché ci piace
- La struttura coinvolge e funziona benissimo.
- I personaggi sono tutti ottimi e interpretati al meglio.
- La pellicola è complessa senza essere mai ermetica.
Cosa non va
- La durata può essere un ostacolo.