Il teatro Petruzzelli di Bari è solo l'ultima tappa toccata da uno spirito libero, un animo errante che ha trovato nel grande schermo l'unico sinonimo di "casa". Jean-Jacques Annaud, moderato dal critico Michel Ciment, non riesce a mantenere un atteggiamento formale e si lascia andare, trasportato da sincera passione, scatenando presto un contagioso desiderio di condivisione.
Subito dopo la proiezione del suo Sette anni in Tibet, opera controversa e oggetto di attriti con il popolo cinese (sia lui che Brad Pitt per anni non sono stati accolti in Cina), è facile farsi trasportare dal racconto di una carriera movimentata, dalla quale è scaturita una filmografia con un'impronta autoriale ben visibile. Una traccia animale (nel verso senso della parola) che affonda nella volontà di evocare la forza della natura attraverso gli istinti, di sorprendere lo sguardo del pubblico con immagini mai banali e sempre cangianti. Perché per Annaud fare cinema significa prima di tutto riprendere una fisicità violenta, produrre immagini "attraverso il linguaggio del corpo, con la parola che passa necessariamente in secondo piano".
Il viaggio come dovere
Un moto perpetuo, nella vita come nel cinema. Annaud giustifica questa sua natura vagabonda (divisa tra Francia, Stati Uniti e Cina) andando a scavare nella sua infanzia parigina "sin troppo felice", convenzionale e borghese, dove il cinema ha rappresentato sempre l'unico modo per "scoprire il piacere del rischio". Ricorda con entusiasmo il suo primo film visto al cinema (Ladri di biciclette) e i suoi idoli registici (tutti presenti in sala): Ettore Scola per il senso dell'umorismo, Alan Parker per l'eleganza e Costa-Gavras per l'impegno.
Curioso notare come l'autore prenda più volte le distanze da tutto l'ecosistema cinematografico francese: dalla critica piena di pregiudizi, dalle case di produzione "poco libere e poco amichevoli" e persino dal movimento della Nouvelle Vague che definisce "obsoleta e snervante, perché qualcosa che si definisce nuovo non può durare cinquant'anni". Ecco, quindi, da dove nasce l'esigenza di esiliare e di cercare una dimensione spettacolare anche in Europa. Perché gli occhi e il cuore sono rimasti quelli del bambino che tanto ammirava Vittorio De Sica, ancora contagiati da un "entusiasmo fanciullesco sempre vivo e curioso", fondamentale per avere sempre voglia di raccontare nuove storie. Per questo il grande schermo è una fonte privilegiata di novità, una dimensione di scoperta che necessita di continui sconvolgimenti e di una curiosità mai davvero sazia.
Regista, archeologo, zoologo
Ciment fa notare che la carriera di Annaud segue un percorso spazio-temporale molto vasto. Dall'uomo preistorico visto in La guerra del fuoco al Medioevo italiano in cui è immerso Il nome della rosa, passando per la Prima (Bianco e nero a colori) la Seconda Guerra Mondiale (Sette Anni in Tibet e Il nemico alle porte) vissuta tra Africa ed Asia. La sua idea di cinema accoglie quindi una sfida estetica e narrativa e lo fa attraverso un'esplorazione emotiva che non può prescindere dai luoghi. Le ambientazioni delle sue opere sono contesti fondamentali per esprimere contrasti tra civiltà, soprattutto attraverso l'opposizione tra l'individualismo tipico dell'Occidente e l'importanza della collettività, tipica della cultura orientale. I suoi personaggi sono spesso plasmati dall'ambiente in cui vengono catapultati, alle prese con l'inconoscibile che turba e crea cambiamenti all'interno dei loro animi. "Forse ho sempre fatto lo stesso film", afferma con sorriso ironico, "dove l'empatia è un elemento molto ricorrente". Mettersi nei panni altrui, guardare negli occhi dell'altro, dove questo "altro" è spesso un animale, uno specchio insolito nel quale riconsiderare i valori dell'umanità. L'orso, le tigri de Due fratelli, l'imminente L'ultimo lupo; tutti adatti ad elevare lo sguardo come centro focale della sua narrazione.
"Gli animali non hanno espressioni facciali, recitano solo con lo sguardo, ed è questo che mi interessa anche negli attori umani". Questa considerazione permette ad Annaud di specificare che l'attrazione verso il mondo animale gli è sempre stata utile per spingere il pubblico a interpretare quello che avviene sullo schermo in maniera del tutto personale, a seconda delle diverse sensibilità di ognuno. "I volti degli animali possono dire tante cose, non sono aiutati dalla parola e questo mi permette di interagire con lo spettatore che è costretto a dare una sua versione di quello che accade sullo schermo". Sembra, quindi, che la lezione di Umberto Eco ("è importante ciò che il lettore legge, non quello che lo scrittore scrive") sia ancora valida.
L'ultima sfida: il 3D
A poche ore dall'anteprima del suo ultimo film, Jean Jacques Annaud esprime il suo parere sulla tecnica tridimensionale, da lui adottata già nel 1995 per il mediometraggio Le ali del coraggio e adesso riproposta in occasione de L'ultimo lupo, storia di un giovane studente cinese che affronta la dura vita rurale della Mongolia. "Per me il cinema è sempre stato un territorio di sperimentazione estetica e tecnica. Sono stato uno dei primi registi europei ad utilizzare la tecnica sonora del Dolby, affinché l'audio del film diventasse una sinfonia avvolgente". Il 3D, invece, è una tecnica che ridefinisce inevitabilmente il ruolo artistico del regista che da semplice "pittore di tele si trasforma in scultore di statue mobili". Facendo riferimento al cinema mainstream degli ultimi cinque anni, Annaud ammette che è facile abusare della stereoscopia, cadendo nell'eccesso con film in cui la tecnica domina la narrazione. Al contrario, "la tridimensionalità deve essere efficace nel creare intimità e non sovraesporre l'azione". Ne L'ultimo lupo ha cercato di invertire il movimento del 3D: non ci sono oggetti che arrivano incontro allo spettatore, ma è il pubblico ad essere inglobato negli ambienti del film, per "condividere il piacere sensoriale della dimensione animale". Una specie di "effetto acquario" che aiuterà ancora una volta a calarsi nei panni dell'uomo che si confronta con la propria bestialità. Un cinema fradicio di emozioni nel quale si può annegare o riemergere un po' più consapevoli.