A volte all'interno di un festival nascono percorsi imprevisti, strade tracciate per caso, ma che rispecchiano un sentire comune, un'esigenza, una sorta di sensibilità collettiva che ci riguarda tutti. Apriamo la nostra recensione di Una madre, una figlia (Lingui in originale), film nordafricano in concorso al Festival di Cannes 2021, prendendo atto di una cosa: al terzo giorno sulla Croisette abbiamo già visto diversi film basati sul rapporto genitori-figli. Un archetipo talmente radicato da essere trasversale a ogni cultura, ma che viene trattato con occhi diversi a seconda del terreno in cui quel topos affonda le sue radici. E il terreno di Lingui è arido, secco, spoglio. È una terra bagnata dal sudore di gente che fatica, si guadagna da vivere stringendo i denti e fa di tutto per proteggere quello che ha seminato. Lo sa bene Mahamat-Saleh Haroun, che il Ciad lo ha dovuto abbandonare negli anni Ottanta, spinto via dalla guerra civile e poi approdato in Francia, dove ormai è di casa da quasi quarant'anni. Dopo aver raccontato tante volte la nazione che lo ha adottato, Hauron torna nella sua terra con uno sguardo stracolmo di amarezza, trovando dentro una madre inamovibile un barlume di speranza. Perché Lingui è soprattutto questo: il ritratto di una donna granitica che si muove tra le macerie di un mondo fragile.
La nobile arte del fare
Svuotare pneumatici per vivere. È questa l'estenuante routine di Amina, artigiana che manda avanti la sua famiglia assieme a sua figlia adolescente, un cane impiccione e due gatti randagi. Il tutto nella periferia di N'Djamena, luogo abbandonato a se stesso, fatto di stenti, ruggine e lamiere. Una vita mesta che Amina vuole rendere sempre dignitosa, gioiosa anche laddove non può esser felice. Poi, all'improvviso, la donna scopre che sua figlia Maria è incinta. Una gravidanza non voluta, a cui le due decidono di porre fine. Questo nonostante in Ciad sia la religione che la legge siano fermamente contrarie all'aborto. Parte da qui Una madre, una figlia, dall'opposizione spontanea di due persone che si oppongono a un sistema rigido e stantio. In un posto dove le ragazze non hanno più tempo per essere ragazze, Amina e Maria decidono così di andare oltre ogni costrizione. E lo fanno con una naturalezza quasi disarmante. È qui che emerge una sensibilità lontana da noi, che non indugia, non si arrovella il cervello in dilemmi morali o esistenziali. Le donne del Chad sono donne d'azione, di atti istintivi, senza il lusso per tergiversare. La nobile arte del fare non è solo lavoro ma una condizione esistenziale perenne. Questo pragmatismo attraversa il film dall'inizio alla fine, diventando quasi il marchio di fabbrica di Lingui. Un'opera di poche parole e molti fatti. Essenziale in tutto, ma anche privo di guizzi e sorprese che lo possano rendere memorabile.
Donne contro
Il ritorno a casa di Haroun è amaro e allo stesso tempo minuzioso nella cura con cui il regista ha messo in scena casa sua. Soffermandosi sul quartiere disastrato di N'Djamena in cui abita la protagonista, Una madre, una figlia riesce a ricreare molto bene la sensazione di essere lì per strada con Amina e Maria. La ricorrenza continua dei luoghi rende vicoli e baracche quasi familiari, aiutando il pubblico a calarsi nella routine ripetitiva dei personaggi. Una sensazione avvolgente che ti lega ad Amina, praticamente sempre al centro dell'inquadratura, sempre in campo, sempre in affanno. È lei il centro di gravità permanente di Lingui. Lei e la sua determinazione ferrea, lei e la sua voglia di regalare un futuro a sua figlia. Hauroun impacchetta così il regalo di una madre per la sua bambina, ed è l'unico uomo a uscire integro da Lingui. Perché non ci sono maschi innocenti da queste parti. Violenti, subdoli, minacciosi, prevaricatori: il maschio del Chad incarna il sistema da beffare con l'impulso dell'amore. Una frase retorica per un film che non lo è affatto. Lingui va dritto per la sua strada, senza orpelli e trovate cinematograficamente rilevanti. Se per Amina e Maria la strada è in salita, per il pubblico la visione è lineare. Se avessimo sentito anche il fiatone, forse, la lotta di Amina sarebbe stata anche la nostra.
Conclusioni
Nella nostra recensione di Lingui ci siamo resi conto di come il film di Mahamat-Saleh Haroun faccia emergere una sensibilità lontana dalla nostra, che affronta la prospettiva dell'aborto con un pragmatismo fiero e indomito. Il tutto raccontato attraverso le azioni di una madre pronta a tutto pur di garantire un futuro a una figlia a cui regalare ancora il tempo per essere ragazza. Peccato che il film coinvolga poco e vada dritto per la sua strada senza scuotere lo spettatore.
Perché ci piace
- La cura scenografica ci immerge letteralmente in quartiere malfamato del Ciad.
- Il pragmatismo della protagonista è umanissimo ed esemplare.
Cosa non va
- Il film non ha guizzi, né trovate degne di nota.
- La storia di Amina e Maria non travolge mai davvero.