Le variabili dipendenti è il cortometraggio vincitore del David di Donatello 2023, traguardo straordinario (a cui è da aggiungere la recente candidatura nella cinquina finale dei Nastri d'argento) arrivato all'apice di un cammino trionfale inaugurato da una felicissima presentazione alla sezione Generation (unica presenza italiana) della Berlinale 2022.
Un piccolo cortometraggio a dirla tutta, prodotto dal Centro Sperimentale di Cinematografia, e anche fiero di esserlo, che racconta una piccola storia giocata sul guardare da vicino le piccole cose.
Il suo autore è Lorenzo Tardella, un interessantissimo giovane regista (classe 1992), che già nei suoi lavori precedenti (su VIMEO è pubblico Edo già da un anno, recuperatelo) si era contraddistinto per un pensiero cinematografico coerente, sia per quanto riguarda i registri adoperati che per le tematiche analizzate.
Una rarità quando si tratta delle nuove voci del cinema italiano ed elemento sintomatico di una mente brillante, profonda e, soprattutto, curiosa. La mente di qualcuno che si interroga su se stesso, sul mondo che lo circonda e su come lo guarda.
Non a caso il suo lavoro nasce da una grande ricerca intima, forse anche dolorosa, mirata ad affrontare qualcosa che si porta dentro da tempo e che da tempo ha la necessità di rielaborare.
Alla vigilia della cerimonia dei David abbiamo avuto il piacere di intervistare Lorenzo Tardella per farci raccontare la sua emozione dopo la notizia della vittoria del premio ma anche, tra le altre cose, di come si è interfacciato con una visibilità più ampia e del suo rapporto con lo spettatore in riferimento a ciò che voleva raccontare.
Prima di iniziare vi ricordiamo che Le variabili dipendenti è visibile su MUBI. L'invito è di precipitarsi a vederlo per poi tornare qua e leggersi questa intervista, in cui il regista conferma di essere una personalità tutta da scoprire.
La notizia della vittoria ai David
Rompiamo il ghiaccio: ti aspettavi questo premio? Sei riuscito a realizzare?
Ovviamente non me lo aspettavo. La speranza c'era, ma non abbastanza da condividere la notizia della conferenza stampa con tanta gente. Lo sapevano pochissime persone in realtà, neanche tutta la troupe, compresi gli attori e le madri degli attori. Io l'ho vista a casa di un amico, dove non volevo neanche andare perché ero talmente certo non sarebbe andata bene che mi sono anche detto: "Sai che c'è? Me la vedo a casa mia o in macchina e soffro in silenzio da solo".
La ragione non sta nel fatto che non vado fiero del lavoro, non me lo aspettavo perché è un dato di fatto che è stato un anno particolarmente ricco dal punto di vista dei corti, andati anche bene durante i circuiti festivalieri. Alcuni molto belli e validi anche provenienti dal CSC.
Quindi sì, già la sorpresa della candidatura è stata grande, quella della vittoria ancora di più. Non credo di aver ancora realizzato la cosa, anche se siamo ormai a ridosso della serata. Realizzerò sul momento, credo. Forse.
Qual è il tuo rapporto con i premi? Come li consideri? Specie se inquadrati al momento della tua carriera.
I premi sono importanti perché costituiscono degli attestati, dei riconoscimenti, specialmente per uno come me che è all'inizio del proprio percorso. Inutile negarlo. Come ti ho detto: la gioia è stata tanta ed è sempre tanta.
Pensando alla percezione da parte del pubblico de Le variabili dipendenti ora, dopo un percorso che l'ha portato al Festival di Berlino e ad essere premiato ai David, garantendogli una notevole notorietà, inedita per i tuoi lavori. C'è qualcosa che ti ha colpito?
A livello di percezione, quello che mi ha colpito, da Berlino in poi, è stata l'immedesimazione che la maggior parte delle persone hanno provato nel vedersi e nel ricordarsi.
La cosa più bella che mi e ci è stata detta è stata: "Mi ha ricordato di quando..._" o "Chi non lo ha provato non lo può capire". Mi è piaciuta molto questa reazione così intima e personale, dato che partivo da un corto che sembrava fatto solo per me. La verità su di noi ce la dicono sempre gli altri, no?
Affrontare le proprie paure.
A volte capita che un regista non si renda conto di quello che sta girando e che siano gli altri a farglielo notare, lo ha detto anche Moretti di recente. Pensi possa essere successo anche te magari?
Sinceramente no, ma capisco perfettamente il discorso che fa Moretti, che però fa riferimento anche a cose più lunghe, più grandi. Una cosa così piccola come Le variabili dipendenti è difficile che ti sfugga di mano, se lo fa può denotare che sei tu il primo a non avere la situazione per niente chiara.
Per fortuna non sono mai arrivati commenti o osservazioni di totale diversità rispetto a quello che avevo in mente io. Si parla di sfumare e riempimenti provenienti dal vissuto personale di chi lo guarda, ma sempre coerente con quello che volevamo dire: una piccola storia di un primo rapporto con l'intimità, ma anche con l'alterità.
Quanto è difficile guardarsi per la prima volta negli occhi di una persona in cui speri di specchiarti in un certo modo.
Le piccole cose sono le più importanti.
Quando ci diedero la possibilità di poter ampliare il progetto con più budget, più giorni di riprese... io decisi di fare la cosa più piccola.
E perché?
Diciamo che uno cerca sempre di migliorare nelle cose che gli piacciono e in cui pensa di sapersi muovere. In questo caso la sfida più grande per me era di fare un corto che fosse fondamentalmente solo di attori e soltanto di corpi di attori. Cercare di svuotare il più possibile il contenitore per avvicinami al contenuto. E quindi è stato un po' anche un modo di mettere a frutto tutti gli insegnamenti che ci hanno dato, specialmente per quanto riguarda la direzione attoriale. La parte più bella e anche la più spaventosa per chi fa il regista.
Io non sono mai stato prima così dentro alle dinamiche emotive dei per personaggi e quindi la vicinanza e l'assenza della parola, per questo ho provato a fare un cinema fenomenologico. Ho sempre avuto un po' paura degli attori e diciamo che ho deciso di affrontarla.
Perché questa paura degli attori?
Gli attori tengono in mano il destino del film perché posso metterti davanti a delle domande a cui tu spesso non sei in grado di rispondere, questo perché vedono nei personaggi tante più cose di quelle che hai visto tu. Facilmente puoi sentirti inadatto a guidarli e io ho spesso ho paura di non avere tutte le risposte.
Come l'hai esorcizzata?
Non penso di averlo fatto. Ho avuto la fortuna di incontrare due persone intelligenti e brillanti nonostante la loro età e che non ho mai trattato come dei ragazzini, anzi, tutt'altro. Se ti dovessi rispondere nello specifico ti direi che mi sono buttato, mi sono lasciato guidare più dall'azione che dal pensiero, come per tutto il resto. A pensarci bene forse questo è ciò che ci ha salvato dalla paura in questo set, trasformandolo in una sorta di idillio di 3-4 mesi in cui tutto è andato come doveva andare.
I giovanissimi non hanno una maggiore dipendenza con il regista?
Credo sia un falso mito. Tutto è in realtà estremamente orizzontale con loro, in quanto c'è sicuramente meno reverenza e meno sguardo dal basso verso l'alto. Quindi è tutto molto più semplice.
Cinema fenomenologico.
Vorrei tornare ad una cosa che hai detto, "cinema fenomenologico". Che intendi?
Credo che sia un'espressione che ho rubato a Francesca Manieri, che era la nostra tutor di sceneggiatura per il cortometraggio, la quale, parlando dell'approccio per la storia che volevamo raccontare e il cinema che mi davo come orizzonte, disse esattamente così. "Cinema fenomenologico", cioè interessato alle cose nel momento in cui nascono. Un cinema che sta sulla vita che accade sullo schermo e restituisce l'impressione che quello che si vede sbocci davanti alla macchina da presa in modo spontaneo.
Anche se poi il lavoro che c'è dietro è tutto il contrario. Lì c'è una marea di pianificazione, specialmente per una storia così piccola, dove la geografia fenomenologica (appunto) doveva essere assolutamente chiara per fare in modo che l'effetto desiderato si verifichi. Francesca lo ha detto anche alle mie co-sceneggiatrici oltre che a me: una chiarezza e una pianificazione estrema per le cose che bisogna fare, in modo da rendersi indipendenti da ciò che accade sul set. Il set è una roulette russa.
Quindi "la preparazione è tutto"?
Io sono uno che crede molto nella preparazione e mi fido ancora molto poco del mio istinto, anche se quando mi ci sono affidato non mi ha fatto mai andare incontro a grandi tragedie. Sono una persona che conta molto su quello che precede il set: mi piace scrivere, riscrivere, ragionare in termini di piano inquadrature e cominciato a pre-visualizzare anche il montaggio, così da avere un'idea chiara delle atmosfere musicali. Se si hanno le idee chiare riguardo quello che si vuole ottenere, poi ci si può permettere di cambiare strada, perché si sa dove si deve arrivare. Anche se mi sono ammorbidito rispetto al passato.
E se ti dicessi invece "preparazione" cinefila?
Preparazione cinefila... in realtà è stata molto poca rispetto al passato. Ho fatto vedere pochissime cose ai miei collaboratori che invece solitamente bombardo. Questo perché volevamo attingere ad un vissuto personale, quindi abbiamo cercato di non usare il cinema. Anche perché poi comunque il cinema che ti piace e che hai assorbito entrerà comunque nel lavoro.
Gli unici ragionamenti sono stati quelli legati alla doppia unità spazio tempo, che all'inizio doveva essere una sola, salvo poi accorgerci che lo scarto tra le due era il senso del corto, e agli sguardi in camera (macchina da presa), che creano una cosa che volevo fare da tempo e che non avevano trovato un collocazione.
Quelli che hanno la funzione di far sentire lo spettatore come un terzo in comodo?
Non posso né confermare né smentire.
Il futuro.
Rispetto al passato cosa è cambiato nella lavorazione de Le variabili dipendenti?
In ogni fase del lavoro è stato fatto un lavoro più approfondito e maniacale del solito, derivante anche dal fatto che avevamo più tempo. Più scrivere e riscrivere, più lavoro sull'ambiente e sulla scenografia (abbiamo anche ricostruito un ambiente, cosa che io non avevo mai fatto), più lavoro di persone viste per il casting e più lavoro con gli attori sia prima che sul set.
E adesso che succede?
E adesso, come tutti i "cortisti", arriva il momento in cui bisogna emanciparsi. Stiamo lavorando al lungometraggio, io e la mia sceneggiatrice, Mara Fondacaro. Lo abbiamo scritto e con la produzione lo stiamo mettendo in piedi nella speranza di girarlo nel minor tempo possibile, che poi non è mai poco. Speriamo di essere all'altezza.
Ma certo.
Mi devo fidare?
"La verità su di noi ce la dicono sempre gli altri".
La verità su di noi ce la dicono sempre gli altri.