Ci sono pagine di storia che tendiamo a dimenticare. Si perdono tra lo scorrere di eventi sempre diversi, eppure sempre uguali a quelli che li precedono. Sono macchie che sporcano l'eredità di un paese, azioni indelebili gettate come polvere sotto il tappeto, e piano piano dimenticate.
Perdono i contorni, sbiadiscono i colori; poi, ecco che personalità come Tom Donahue riscoprono mondi dimenticati, storie appassite, crimini efferati e (di)sconosciuti da intere generazioni. Sono casi come quelli dell'omicidio di Roberto Calvi che il regista accoglie tra le mani e riporta sullo schermo in una docu-serie disponibile su Paramount Plus e intitolata L'assassinio del banchiere di Dio. Già, perché Calvi non era un banchiere qualunque: era il banchiere del Banco Ambrosiano, un uomo che sapeva troppo tanto da ritrovarsi implicato in una fitta rete le cui estremità erano tenute ben salde da realtà come la Mafia, il P2, e il Vaticano stesso.
Parlare del passato per comprendere il male del presente
Un uomo, Calvi, di cui forse le nuove generazioni conoscono poco, e fa pensare che sia stato un regista venuto dall'altra parte dell'Oceano, dagli Stati Uniti d'America, a raccontare, in un'opera oggettiva, obiettiva e realistica, un capitolo così ombroso, buio e alquanto dimenticato, della storia italiana. "La mia collega e co-produttrice ha studiato alla George Sand University verso la fine degli anni Novanta e qui lesse del caso Calvi. Mi appassionai immediatamente a questa storia, sebbene mi resi subito conto di quanto fosse impossibile ridurre tale caso in un documentario di soli novanta minuti. È stato solo grazie all'interesse sempre maggiore verso la produzione di docu-serie che in pieno lockdown capii che era questa era la soluzione perfetta per il nostro progetto. Suddividere la storia dell'assassinio di Roberto Calvi in quattro episodi invece di un solo film ci permetteva di sviluppare meglio ogni singolo passaggio di questo caso e al contempo dare il giusto spazio a ogni personaggio qui coinvolto".
La storia tende a ripetersi. Ogni suo capitolo è un copia e incolla di quello precedente. Una reiterazione che ha spinto ora più che mai il regista a gettarsi a capofitto in questo progetto. "Fino a dieci anni fa non avrei mai sentito l'esigenza di raccontare una storia come quella dell'omicidio di Calvi. È stato solo con l'ascesa di Trump alla Casa Bianca che mi sono accorto quanto le radici del fascismo continuino a svilupparsi nel sottosuolo della nostra società. Una presa di coscienza che mi ha portato a interrogarmi su cosa spinga ancora oggi tali semi a germogliare intaccando la nostra democrazia. Sono così giunto alla conclusione che se volevo ottenere qualche risposta dovevo indagare nei meandri della storia italiana, per poi ritrovarmi a indagare un caso così complesso e illuminante come quello di Calvi".
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Arte come forma di verità
L'essere umano chissà perché trova difficile imparare dai propri errori. Se la storia è scritta dai vincitori, i documentari vengono invece realizzati da uomini e donne che intendono raccontare la storia da un punto di vista quanto più realistico e obiettivo possibile. Può dunque un documentario elevarsi a sorta di guida affinché gli errori del passato non vengano più ripetuti? "Non credo che si tratti solo di un compito affidato ai documentari, quanto al giornalismo in generale. Per noi è una sorta di missione scavare la realtà, trovare dei collegamenti tra gli eventi del passato per poter parlare e capire al meglio il nostro presente. Pensa che quando andavo all'università volevo io stesso diventare un giornalista, poi scoprii il mondo dei documentari e negli anni successivi non ho fatto altro che unire questi due linguaggi".
Sacrificare i pochi per salvare i tanti
Quello di Calvi è un caso effettivamente complesso; molte personalità si ritrovarono coinvolte, e altrettanti misteri sono rimasti irrisolti. Saranno tante le scoperte che avranno sorpreso, o scioccato Tom Donahue nel corso delle sue ricerche per la realizzazione del suo documentario. Eppure c'è un dettaglio che lo ha colpito maggiormente.
"Da americano direi che a scioccarmi particolarmente fu la scoperta del coinvolgimento della CIA in questo caso, e l'istituzione anche in Italia della cosiddetta 'Operazione Gladio', nata per contrastare e combattere il comunismo. Una scoperta che non ho inserito all'interno del documentario, per una questione di tempo, ma che insieme a tutti gli altri fattori mi ha particolarmente sconvolto, soprattutto nel momento in cui ho preso coscienza del contesto che l'ha generata. Penso che siano facilmente comprensibili le motivazioni che hanno spinto le nostre società a dar vita a tali operazioni; motivazioni che vanno ben oltre l'avidità di queste potenze perché maggiormente radicate nell'isterica paura per una possibile espansione del comunismo. Al tempo sussisteva questa idea dilagante che il mondo sarebbe finito se l'Italia fosse diventata comunista, ed ecco allora che venne messa in campo ogni tipo di azione difensiva affinché ciò non accadesse, anche a costo di uccidere persone innocenti come Calvi.
Animare il terrore
L'assassinio del banchiere di Dio è un documentario in quattro puntate, e come tale si avvale della potenza di testimonianze da parte di esperti del settore e giornalisti, di materiali di repertorio, ma anche e soprattutto di una tecnica inusuale per tale genere: l'animazione. Con L'assassinio del banchiere di Dio le fiabe animate lasciano adesso spazio a omicidi e giochi di potere, generando nel proprio spettatore un maggior senso di disagio e disorientamento. Eppure, come sottolinea il regista, "il tipo di animazione a cui ci siamo affidati prende le mosse da un genere ben preciso e alquanto 'dark' come quello delle graphic novel. Devo dire che è stata una scelta parecchio azzeccata, questa, non solo perché il disegno animato si è rivelato uno strumento imprescindibile per immergere lo spettatore all'interno di un caso come quello di Calvi, ma è stato anche indispensabile a livello produttivo per ricostruire le vicende narrate in maniera ancora più empaticamente coinvolgente, aggirando al contempo il problema del budget limitato che ci impediva di ricreare il caso in studio avvalendoci di attori e set".
C'era un po' di timore in Tom Donahue su come gli italiani potessero reagire alla storia che ha portato sul piccolo schermo. Dopotutto ne L'assassino del banchiere di Dio si parla di Mafia, del Vaticano e dei suoi misteri, della P2, tutte realtà che hanno segnato - sebbene in maniera negativa - la storia dell'Italia. Ciononostante, il regista era ben conscio dell'importanza del materiale raccolto, e della portata testimoniale dei giornalisti ed esperti chiamati a partecipare alla sua produzione. Una sicurezza circa il proprio lavoro che non lo ha mai fatto dubitare del valore del prodotto finale, tanto da eliminare ogni segno di paura, o pressione circa il giudizio altrui. "Al massimo chi deve sentire una leggera pressione sono tutti i grandissimi reporter che ho coinvolto nel corso dei documentario, grazie soprattutto all'intermediazione della mia associate-producer, Chiara Spagnoli Gabardi. Ecco, spero soltanto che nessuno di questi professionisti si becchi un qualche richiamo per causa mia!".