Laila Al Habash: musica, cinema e quell'emozione a cui voler credere

Il nuovo EP, il cinema in piazza (in tutti i sensi), le bandiere della Palestina: mezz'ora al telefono con Laila Al Habash, tra le voci più rappresentative di una nouvelle vague artistica di cui andare fieri.

La cantante Laila Al Habash. Foto di Giacomo Gianfelici

Mezzogiorno spaccato di un caldissimo giovedì romano. L'appuntamento è telefonico e l'occasione è doppia: da una parte la moderazione di un titolo socialmente e politicamente importante come Libere, disobbedienti e innamorate con la regista Maysaloun Hamoud, programmato a San Cosimato in occasione de Il cinema in piazza, dall'altra l'uscita del nuovo EP, Long Story Short (titolo evocativo, e anche molto cinematografico). Al primo squillo, ecco che risponde, puntualissima. "Parlo tanto, se poi esagero fermami!", ci dice Laila Al Habash, tra le voci più interessanti e interessate del panorama musicale italiano. Di fermarla non abbiamo nessuna intenzione, anche perché la chiacchierata (da dieci minuti che doveva durare la teniamo al telefono mezz'ora) offre diversi spunti, trasversali, puntuali e intelligenti, come spesso capita con artisti under 30 (glielo diciamo, quasi non ci crede, ma è la verità).

Laila Al Habash
Laila Al Habash, una foto promozionale

Parliamo di musica e di industria musicale, parliamo di cinema (il set l'ha già conosciuto in Noi anni luce), parliamo di lavoro e parliamo di Palestina. Già perché come recita la sua bio su Instagram, Laila Al Habash, classe 1998, è "half italian, half palestinian". Quello del Free Palestine è un tema focale, fondamentale, vitale. Un tema su cui arriva la stessa cantautrice, anticipando le nostre domande (capite perché parlavamo di intelligenza?), soffermandosi su quanto la Palestina non sia solo una causa da sposare, ma da supportare e valorizzare con una presa di posizione il più possibile concreta, che sfidi attivamente la propaganda contro il popolo palestinese. In fondo, il ruolo dell'artista ha anche un valore politico, e la sensibilizzazione verso certe dinamiche ne accresce notevolmente il lato umano.

Insieme a Laila Al Habash, affrontiamo poi un altro punto, legato a quanto il mestiere dell'artista, in Italia, sia spesso svilito da "uno Stato che ti fa credere quanto sia inutile la cultura". Eppure, come ci ricorda, "L'arte smuove soldi, fa girare l'economia, crea posti di lavoro". Questione di "codici culturali", secondo lei. Gli stessi codici che Laila Al Habash ha saputo ribaltare (fin dai singoli degli esordi, come Come quella volta o Bluetooth), puntando a quelle "emozioni un po' truccate, a cui è bello credere".

Laila Al Habash, la nostra intervista

Laila Al Habash Foto
Tutti i colori di Laila Al Habash

Laila, è appena uscito il tuo ultimo EP. Domanda di rito, da dove nascono le nuove canzoni?
Nascono principalmente da una ricerca che si ramifica in vari ambiti. Comunque, parto dalla voglia e dalla pretesa di emozionarmi, attingendo alle emozioni stesse per poi raccontarle. Devo sempre aver ben presente ogni immagine.

A proposito di emozioni. Secondo te, viviamo in un'epoca che le esalta o le reprime?
In realtà è lo stile di vita, soprattutto cittadino, a reprimere le emozioni. Non c'è tempo di viverle e non c'è tempo di riflettere sulle cose. Dall'altra parte, mi sembra che ci sia un over sharing delle emozioni, come se fossero un trend. A volte, mi sembrano prive di significato, spesso ridotte ad una performance. Di tutta risposta però c'è una spinta sociale, che ci porta a parlare, ad aprirci.

Effettivamente il nostro è un periodo di contraddizioni.
Siamo in un periodo storico in cui si cresce al contrario. Da ragazzina ho visto delle cose irripetibili in tv, e ora viviamo in un periodo di forte censura. Voglio dire, i miei genitori si scandalizzavano per l'ombelico di Raffaella Carrà, mostrato in televisione. Mi preoccupa questa censura verso la stampa, vero la libertà di opinione. Un concetto che purtroppo tocca l'identità palestinese, se pensiamo ai tentativi di diffondere odio e propaganda contro il suo popolo. Tuttavia, dopo tutti questi mesi, è impossibile cancellare l'identità delle gente, il mondo ha sposato una causa. E se c'è un risvolto positivo di questo periodo cupo, tra violenza e censura, quello è rintracciabile nel dibattito.

Cosa provi quando vedi le bandiere palestinesi sventolare in piazza, o durante i tuoi live?
Effettivamente è una cosa nuova anche per me. Durante i miei live c'erano delle bandiere, e leggo questo gesto come espressione di vicinanza, in tutti i sensi. Un gruppo di persone riunite per un evento, accomunate banalmente dai gusti musicali. Allora, mi metto nei panni di chi è spettatore palestinese come me, e spero vivamente che questi gesti siano accompagnati da un attivismo concreto.

Pensi sia un trend passeggero?
Sai, è un dubbio. Mi preoccupa un po' vedere le stesse persone che supportano me o non per forza me, boicottare poi chi non sostiene la Palestina. Dire in piazza 'Free Palestine' è pregevole, però mi piacerebbe ci fosse una sostanza alla base, sennò diventa una frase svuotata di significato.

"Attori e musicisti? Un lavoro che vive di emozioni"

Oggi in piazza si scende più di prima, nonostante questo l'artista è ancora un lavoro poco valutato in Italia.
Perché credo che sia una sorta di accumulo di codici culturali italiani, che abbiamo appreso anche senza rendercene conto. Se cresci in uno Stato che ti dice che con la cultura non ci mangi, o che l'arte non porta lavoro, anche se non sei di questa idea, un po' alla fine cedi. Ti dico che in tour sei costretto a fare concerti in situazioni allucinanti, ti staccano la corrente se fai chiasso dopo una certa ora. È successo anche a Bruce Springsteen a Milano! Assurdo, perché l'Italia deve tutto all'arte. Lo Stato però non dedica spazio e importanza alla musica, come fanno altri paesi in Europa. Non pensano che sono strumenti che portano soldi e lavoro.

Qualcosa sta cambiando?
Quello del cantante mi sembra un lavoro molto ambito. E poi è molto simile ad un attore. Sono simili perché ti regalano un'emozione. Anche se tu sai che da qualche parte c'è un trucco, e nessuno dei due è sincero. Ma è comunque bello lasciarsi andare.

Cosa cambieresti invece dell'industria discografica italiana?
Vorrei eradicare la tendenza che nel copiare e incollare qualcosa quando va bene. Si creano cose tutte uguali, in serie, appiattendo tutto. Non si cerca qualcosa di nuovo, ma qualcosa che piaccia a tutti. La maggior parte delle cose devono essere estremamente belle, tipo i Beatles, ma lì siamo in un altro campionato, o di contraltare devono essere mediocri e banali.

Il riconoscimento vero, in Italia, arriva quando si è trasversali. Penso ai nomi del cantautorato romano (da Coez a Carl Brave), che sono eccezionali e famosi, ma non ancora popolarissimi. Perché c'è difficoltà nel ricambio?
Quelli che tu citi sono tutte persone che hanno segnato un periodo, e sono assolutamente compiuti nel loro percorso di successo. Però, essere riconosciuti dalle persone più anziane non è un riconoscimento valido. Far parlare musicalmente una ragazza di 25 anni con una signora di di 60 anni. Ognuno vive con l'algoritmo che genera il nostro mondo, e non è vero che ascoltiamo tutti la stessa cosa. Certo, chi non entra troppo nella musica commerciale, e meriterebbero più spazio.

Tra l'altro quella della musica commerciale è un'etichetta spesso fuorviante.
Non deve esserci pregiudizio sulla musica commerciale, perché sono canzoni più adatte ad un altro tipo di ascolto, magari più leggero, in macchina, con i finestrini aperti. Non è come ascoltare Luigi Tenco, insomma.

Lina Wertmüller e Alice Rohrwacher, il cinema di Laila Al Habash

Hai recitato in Noi anni luce, altri progetti cinematografici all'orizzonte?
Non è così raro, il cantane e l'attore fanno la stesso lavoro, per certi versi. Quando ho recitato in Noi anni luce ero molto incerta e insicura, poi ho scoperto il set, ed è stata una bella esperienza. La concentrazione, le persone, l'atmosfera. Il cinema è più corale rispetto alla musica, tutti sono importanti. Il cinema è verticale, la musica è più decentrata e trasversale. Una cosa che mi ha appassionato.

Che tipo di cinema ti ha formato? Mi sono innamorata di Lina Wertmüller, mi emozionano molto i suoi film. Mi lasciano molto, anche sensazioni negative e sentimenti di fervore. In generale, però, adoro il gesto di andare al cinema. Vedo molti film, anche da sola. E poi adoro Alice Rohrwacher. Che bello La chimera.

Invece, ti piacerebbe scrivere musica per il cinema? Mi piacerebbe, sì, ma è un compito importante: come arredare una casa gigante. So fare canzoni, da sempre, e mi piacerebbe sfidarmi nello scrivere musica pensata per una scena. Le canzoni iconiche poi spesso sono quelle cinematografiche, se pensi a Pino Daniele con Massimo Troisi.

La foto in copertina è di Giacomo Gianfelici