Io voglio una gioventù brutale, tiranna, intrepida e crudele. La gioventù deve essere tutto questo. Essa deve sopportare il dolore. Non deve avere nulla di debole e delicato. La libera, splendida bestia predatrice deve ancora una volta emergere brillando dai suoi occhi. Così io sradicherò migliaia d'anni di civilizzazione umana. Così io creerò il nuovo ordine (Adolph Hitler, 1933)
Crisi economica, indebitamento dello stato senza precedenti, disoccupazione e malcontento. Rabbia, frustrazione, impossibilità di realizzazione. Così Hitler trovò il terreno fertile per instaurare il suo potere, e per chiamare a sé la creta più plasmabile di qualunque popolo: i ragazzini. È la storia che inesorabile si ripete, anche oggi. E anche quando dal terreno concimato si sentiva chiaro l'odore di letame di quella ideologia, Hitler chiamò in guerra, nel 1944, uomini dai 16 ai 60 anni, e volendo anche donne. I fronti erano molteplici; tra di essi la Danimarca, con la costa orientale disseminata di mine antiuomo, piazzate lì proprio dall'esercito nazista. Anche quando una guerra finisce, il lascito è lungo e porta con sé una scia di morte.
Land of Mine - Sotto la sabbia racconta una pagina del dopoguerra nota solo a pochi. Tutti sappiamo di come gli Stati Uniti hanno ostentato la loro liberazione, di come la Germania fu divisa, di come dagli accordi stipulati in quegli anni germinò quella che sarà l'Europa di oggi. Nessun libro di scuola però ci ha mai raccontato di come quei giovani soldati tornarono a casa, di come poterono affrontare il presente, la sconfitta, il disorientamento. E nemmeno di come alcuni di loro a casa non tornarono mai. Arruolati in una guerra che non potevano capire, acerbi com'erano. O il fronte o la fucilazione, la scelta era limitata. Alcuni di loro caddero prigionieri, e l'opinione pubblica in quelle terre rifletteva lo stesso odio che il nazismo aveva promulgato: sei tedesco, non sei nemmeno umano, non hai diritti, nemmeno alla pietà. "Se sei grande abbastanza da andare in guerra, lo sei anche per riparare a ciò che hai fatto", recita una frase del film. Una battuta che dovrebbe bruciare, oggi, mentre bambini da un'altra parte del mondo vengono dotati di fucile prima ancora di entrare nella pubertà.
Il cinema post-bellico
Il cinema di guerra non morirà mai e non deve farlo. Se non ci pensa l'arte a farci riflettere sulle atrocità, nella speranza che un giorno possano non ripetersi, non ci penseranno di certo i governi che le guerre le fanno. Negli ultimi tempi ha preso piede un cinema post-bellico o quasi, quello che racconta di soldati stanchi, di uomini dagli occhi ormai spenti dalle troppe atrocità che hanno visto. Non sono i reduci del Vietnam, bensì soldati che dalla guerra sono appena usciti o ne affrontano con dignità e orgoglio gli strascichi, come il Brad Pitt di Fury. Capitani che non abbandonano i loro uomini o le proprie idee, ormai non sempre conformi agli ordini ricevuti.
È in questo sotto-genere che si inscrive Land of Mine, con la doppia valenza così pregna del suo titolo internazionale. Dietro la macchina da presa e allo script c'è il Martin Zandviliet di Applaus, alla splendida fotografia che rende tutto più alienato, struggente e sembra far sentire la sabbia nella gola Camilla Hjelm. Un sergente, Carl Rasmussen, il cui odio per i nazisti è radicato in ogni cellula del proprio corpo, riceve l'ordine di coordinare le operazioni di sminamento della costa. I prigionieri di guerra nazisti saranno gli addetti al rischioso compito. Bestie, assassini, sterminatori. È giusto che muoiano loro mentre tolgono di mezzo le mine che hanno disseminato. Ma i prigionieri sono solo un gruppo di ragazzini ai quali non cresce ancora la barba, spaventati e disorientati. Chiusi in un capanno con pochissimo cibo e condizioni igieniche inesistenti, alla stessa stregua degli ebrei nei lager, tutto il giorno devono sminare la spiaggia. Molti saltano in aria, altri restano mutilati, alcuni di loro impazziscono. E la promessa del ritorno a casa è un miraggio, se non una bugia.
"Pietà fra gli uomini il misero non trova"
Dobbiamo ringraziare i festival internazionali, in primis quello di Toronto e poi anche la Festa del Cinema di Roma: film come questo, di cinematografie poco conosciute, non se ne vedono spesso altrimenti. E attori come Roland Møller restano sconosciuti al grande pubblico. A Roma ha raccontato come è stato strano lavorare con ragazzi presi dalla strada, non professionisti, e di come il loro spaesamento sul set ha contribuito a ricreare il terrore che devono aver provato quei poveri soldati implumi. Negli occhi di Møller sta tutto il cambiamento, dal sergente spietato che si dispiace che gli abbiano mandato dei ragazzi solo perché non sono artificieri esperti e ci vorrà una vita a finire il lavoro, a Uomo che prova compassione, empatia, che promette, che si impegna, che dispensa umanità come può. Un attore che ci auguriamo di rivedere, non solo in piccoli ruoli come quello che avrà in The Coldest City. Intanto il film esce nelle sale legato a un'iniziativa per Emergency. Perché la guerra nel mondo non è mai finita.
Movieplayer.it
3.5/5