La malattia della banalità
Dopo due film particolarmente riusciti con Alessandro D'Alatri, Fabio Volo torna al cinema con il nuovo lavoro di Eugenio Cappuccio, riconfermandosi quel bel talento che abbiamo imparato a conoscere anche su grande schermo, e la sua ennesima ottima prova d'attore finisce con l'essere l'aspetto più positivo di un film ampiamente dimenticabile.
Abbandonata la fotografia patinata di Volevo solo dormirle addosso, Cappuccio si affida ad uno stile più asciutto (e più consono al tema trattato) per tornare a parlare, tra dramma e commedia, di giovani rampanti e detestabili, alle prese qui con le difficoltà apparentemente insormontabili ed improvvise che la vita riserva. Dai moderni uffici di una multinazionale alle grigie stanze d'ospedale di un reparto tumori, dall'universo spietato del lavoro a quello solidale della malattia. Cambiano luoghi e toni, ma il risultato e i difetti del cinema di Cappuccio restano gli stessi: discorso inconsistente e mai realmente incisivo su realtà pur poco indagate nel cinema italiano, mancanza di coraggio e di vera ispirazione nello sviluppo di spunti pur interessanti.
Volo interpreta Lorenzo, un avvocato presuntuoso e guascone che si è imbarcato in un grosso affare extra con alcuni clienti russi, da cui spera di guadagnare una grossa somma di denaro. Un giorno perde conoscenza per strada e si ritrova in un letto d'ospedale, con un cerotto in testa, che gli copre il segno lasciato da una biopsia al cervello. Nel letto accanto c'è Giovanni, un uomo anziano dal volto dolce che tenta di rassicurarlo con frasi di circostanza e statistiche ad hoc (uno su due non è un tumore benigno), per non farlo sprofondare nel panico. Disperato all'idea di avere un tumore, Lorenzo chiede di essere lasciato in pace, ma finisce con l'ascoltare e l'affezionarsi alla storia del suo compagno di stanza, separato e con una figlia lontana, che non ha voluto mettere al corrente della sua situazione. Lorenzo, in attesa dei risultati dei suoi esami e di fronte al letto vuoto di Giovanni, che lotta per la vita in sala operatoria, decide di partire, alla ricerca della figlia di quell'uomo che sembra aver mosso qualcosa in lui, con l'intenzione di portarla al capezzale di suo padre.
Il difetto più evidente di Uno su due è la mancanza di coraggio in fase di sceneggiatura, la scelta di restare in superficie, evitando di affondare i colpi. Ben quattro sceneggiatori, e la collaborazione dello stesso Volo, per mettere insieme un'accozzaglia di banalità che trova il suo culmine nel terrificante monologo conclusivo, deriva di un film asettico e scontato che si affida al più classico dei finali consolatori per un superfluo inno alla vita. Cappuccio e soci si ostinano a voler chiudere per forza tutte le parentesi aperte, con fretta e lasciando che tutto appaia perfetto, ma le immagini che offre il film puzzano terribilmente di già visto: il risveglio della vita sull'orlo del baratro, il ricongiungimento col mondo sospesi in aria, la riscoperta delle emozioni e il ridare valore all'umiltà, all'amicizia e all'amore dopo aver rischiato di perdere tutto. E questa fastidiosa mancanza di idee, in un film in cui si ride poco e non si ha la voglia di emozionarsi, si esprime anche nel voler ricorrere, ancora una volta, ad un tormentone che stuzzichi lo spettatore e gli si fissi in mente. Così, dopo la ripetizione ossessiva del "ti stimo molto" pronunciata dal mobbizzatore Giorgio Pasotti in Volevo solo dormirle addosso, ora si punta sul neologismo "rattenuto" (contrazione di rattrappito e trattenuto), che indica uno stato asettico di chiusura e di menefreghismo, con cui Lorenzo viene appellato dalla sorella depressa. Pessime, poi, alcune scelte di regia, in particolare le soggettive insistite del protagonista e i suoi risvegli fuori fuoco. Siamo però felici di rivedere sul grande schermo un volto come quello di Ninetto Davoli, attore feticcio di Pasolini, che qui interpreta il personaggio di Giovanni. Ci piacerebbe vederlo utilizzato più spesso dal nostro cinema.