Incontriamo Sergio Scavio a due passi dal lungomare di Bari dopo un'acquazzone che ha lasciato il cielo pieno di nuvoloni grigi da cui filtra potente la luce del sole. Il regista ha presentato al Bif&st il suo primo lungometraggio di finzione, La guerra di Cesare, nella sezione Meridiana. A due mesi dal festival la pellicola arriva nelle nostre sale dal 22 maggio.

La storia è quella di due amici, Cesare (Fabrizio Ferracane, premiato per la sua interpretazione) e Mauro (Alessandro Gazale), due ex minatori di un piccolo paese nel sud ovest della Sardegna in grave declino economico. Lavorano entrambi come guardie giurate all'interno di una miniera in disuso aspettando che un'azienda cinese compri la struttura per rilanciarla. Quando l'accordo salta, i due perdono il lavoro. La reazione di Mauro è esasperata e, nel tentativo di dare fuoco alla miniera, perde la vita. La perdita dell'amico spinge Cesare a partire verso la città in cui c'è la sede principale dell'azienda per vendicarlo. Ma le esperienze fatte metteranno in discussione tutto, anche la sua volontà di vendetta.
Un lavoro che dia soddisfazione

Uno dei temi portanti del film è quello del lavoro e della sua crisi. Un aspetto fondante delle nostre esistenze capace di influenzarle. Per i due protagonisti la miniera è "croce e delizia". La mano che li sfama ma che, al tempo stesso, li intrappola in una realtà immobile impedendogli di progredire. Quanto era importante per Sergio Scavio affrontare questa tematica e mostrare la dualità che il lavoro assume nelle vite dei protagonisti così come nelle nostre? "La risposta dovrebbe durare due ore (ride, ndr)", spiega il regista. "Peraltro sia lei che io abbiamo fatto delle scelte completamente diverse, ci siamo emancipati dal grande equivoco tra reddito e lavoro. Anche se siamo di generazioni diverse forse abbiamo iniziato a intuire - e le nuove ancor di più - che il lavoro se deve essere un dato esistenziale, deve essere guidato da noi stessi. Se il lavoro è la mia vita, me lo scelgo come lo voglio. Perché la mia vita deve essere di soddisfazione".
"Il fatalismo che albergava in quel tipo di lavori dove non c'era altro da fare se non quello, dove la vita è sofferenza e non può cambiare nelle sue forme e nel suo sviluppo. E non parlo solo delle miniere. Venendo dalla Sardegna penso al mondo agropastorale inscritto nel DNA delle persone perché esisteva dai tempi di Omero. Un lavoro fatto per millenni nel territorio".
"Il Novecento ha sconvolto tutto", continua Scavio. "Per quelle persone quel lavoro era tutto e senza non avrebbero potuto fare nulla. E il racconto di quel territorio è ancora così. Senza un'identità produttiva e quindi senza un'identità sentimentale/culturale. Da un lato era un gioco a perdere, la metafora dell'asino cieco portato cucciolo nelle miniere che ha sempre vissuto lì sotto. Sono storie reali: non vedono più perché hanno sempre e solo vissuto nelle miniere. È un po' il racconto di Mauro che vuole andare via. Ma come può farlo? Con un atto estremo e violento verso sé. Ma anche con un atto esemplare. Spero questa generosità nel film emerga, perché è un personaggio che ho amato molto. La sua vitalità e voglia di rifiutare una condizione che, secondo me, era bene rifiutare. Cesare, invece, muta e passa da una dimensione all'altra grazie anche all'insegnamento di chi si è fatto esempio di un modo di vivere".
L'importanza delle "scenette"

Il film è attraversato da momenti lievi, ironici. Come le sequenze nelle quali Cesare si dedica alla sua passione: il ballo. "Mi piace quando ci sono dei momenti in cui il film si ferma e le persone ballano. Perché i film possono anche fermarsi e far accadere cose che non sono narrative. La guerra di Cesare ne fa accadere alcune", afferma il regista. "Addirittura avrei voluto farlo ancora più episodico. Mi piacerebbe l'idea di costruire un film di 'scenette', ma anche un film di racconti che sono molto fuori moda. Perché non si possono realizzare? Perché abbiamo sempre bisogno di sottostare alla dittatura della sceneggiatura. Invece il cinema prima era molto più libero e forse era anche più entusiasmante".
"E poi mi piaceva l'idea che questo personaggio avesse un tratto di frivolezza. Balla malissimo, insegna un ballo che non sa fare. E questa inadeguatezza raccontava benissimo chi è", prosegue Scavio. "Balla una musica che reputa perpetua, che non potrà cambiare mai. E, invece, poi lo sentiremo anche nei suoni che il personaggio cambia. Arriva il rock, ad esempio, per raccontare la morte di Mauro o c'è una musica che assomiglia alla vaporwave contemporanea. Quindi suoni che vengono da un mondo della nostalgia di un tempo che non hanno mai vissuto. Sulla colonna sonora ho fatto un lavoro con un produttore di musica rap, Samuele 'Pherro' Masia, che non ne aveva mai realizzata una prima. Abbiamo costruito uno scenario musicale che mi rappresenta e, spero, rappresenti anche il personaggio".
La poetica

Ne L'infinito, primo film da regista di Umberto Contarello c'è una scena in cui il suo personaggio nel parlare con una giovane sceneggiatrice spiega come il verbo "funzionare" si possa usare soltanto per i rubinetti e non per i film. Perché le storie o sono belle o sono brutte. "Sottoscrivo tutto", afferma Scavio. "Per me il cinema dovrebbe tornare in quella direzione là. È difficile perché i bandi ti chiedono storie perfette. Finanziare quei film là è difficile perché sono storie poco credibili".
"Insegno scrittura creativa all'Accademia di Belle Arti e gli stessi ragazzi che partecipano al corso sono già molto indirizzati al viaggio dell'eroe e cose simili. Nessuno ha una poetica. E invece se uno ne ha una tutto si aggiusta. La storia funziona perché sei credibile. Il problema vero è trovarla. In questa polifonia tu che voce hai? Per me questo è il tormento, non se la storia funziona. Il mio obiettivo sarebbe, anche per soli due minuti, far suonare bene la mia voce. È difficile. Mi basterebbe una scena per farmi andare nella tomba soddisfatto".
Rivoltarsi per esistere
Cesare e Mauro, così come tutti gli altri operai della miniera, si interrogano sui possibili nuovi proprietari. Meglio i cinesi o gli arabi? È la domanda che si pongono. Uomini che devo immaginare quale sia il "padrone" migliore per poter continuare a mangiare. Scegliere nella propria testa il male minore. "Quello che abbiamo davanti agli occhi è indubbiamente questo", spiega il regista parlando del nostro presente. "Paradossalmente in tutto il film ho cercato di non usare una chiave drammatica per non depotenziarlo. Doveva essere sempre un po' in chiave di commedia. Anche se è una cosa molto seria".
"Sono un po' pessimista", aggiunge Scavio. "Mi sembra che quello che hanno i nostri protagonisti, non lo abbiamo noi. Il film è un po' un'esortazione a rivoltarsi, anche sapendo di perdere. Però la rivolta in sé è densa di spirito vitale. E noi ne abbiamo bisogno per sopravvivere, per dare senso alla nostra esistenza. Non ci si rivolta più, i ragazzi hanno perso il germe della rabbia. Lo vedo nei ventenni, sono molto educati. Invece c'è bisogno di una generazione di maleducati. Insegno loro e mi contraddicono e protestano poco".
"In questo momento in cui la Palestina è sotto scacco, non hanno fatto nessuna iniziativa dentro ai nostri spazi", prosegue il regista. "Ma hanno disegnato nel bagno, sopra la carta igienica, una piccola bandiera palestinese. Lo cito sempre come esempio della loro dimensione politica e dello spazio in cui protestano. Un luogo privato e una dimensione piccola. Invece c'è bisogno di azioni clamorose".
"Quello che viviamo è uno dei momenti peggiori dal secondo dopoguerra, quindi probabilmente dall'esigenza nascerà di nuovo questa rabbia, quella di quando sei in un pericolo imminente. Servirà a salvare la società più che a migliorarla. Le proteste del dopoguerra erano nate per creare una società più giusta, ora per lasciarla in vita. Sono due rabbie diverse: una esistenziale, l'altra più volitiva, proiettata verso la vita. Però magari esisterà anche questo tipo di rabbia. Me lo auguro, ma rimane un velo di pessimismo".