La favola di Pupi
Giordano Ricci, da tutti considerato malato di mente, trascorre la propria vita dividendosi tra la fabbrica di confetti, di cui è proprietario insieme alle anziane zie, e lo sminamento dei campi che circondano Torre Canne, il paesino del Sud in cui vive. A turbare questa tranquillità giungono improvvisamente da Bologna la cognata Liliana, di cui Giordano è perdutamente innamorato fin dall'infanzia, e il nipote Nino, scaltro e nullafacente. Nulla sarà più come prima nell'assolata masseria pugliese, ma i cambiamenti non saranno poi tutti così negativi.
Pupi Avati sceglie di scrivere e dirigere una storia delicata e malinconica con tocco leggero puntando, ancora una volta, su un cast che contiene qualche inaspettata e piacevole sorpresa. Il regista bolognese si affida ad Antonio Albanese per dar vita al suo protagonista e il comico lo ripaga con una perfomance commovente e surreale caricando di coraggio e umanità il suo "malato di mente" che, a conti fatti, sembra essere il più sano di tutti. Neri Marcorè si dimostra capace di dar vita ad un personaggio assolutamente al di fuori delle sue corde, un arrivista falso, bugiardo e privo di qualsiasi pudore. Nino si fa odiare fin dalla sua prima apparizione sullo schermo e Neri Marcorè riesce a far perdonare anche quelle eccessive forzature nello script che minano la credibilità del personaggio. Indubbiamente azzardata la scelta di far debuttare sullo schermo Katia Ricciarelli nelle insolite vesti di attrice, ma ormai, dopo i lanci di Marcorè, Vanessa Incontrada e Vittoria Puccini, Avati ha ampiamente dimostrato di amare le scelte spiazzanti e anche stavolta sembra aver avuto ragione. Molto curata l'ambientazione storica di quello che è un vero e proprio "film in costume" in cui spicca il netto contrasto tra la Bologna del dopoguerra grigia, povera e disperata, e la Puglia così solare e rassicurante.
La sceneggiatura del film si mantiene in equilibrio tra commedia e melodramma senza mai eccedere in una direzione o nell'altra, ospitando ancora una volta quei richiami autobiografici che caratterizzano l'autorialità di Avati e che stavolta si concentrano soprattutto nel ritratto materno della vedova Liliana, pronta a venir meno alla propria moralità per amore del figlio scapestrato e irriconoscente. La seconda notte di nozze, presentato in concorso al Festival di Venezia, è passato senza destare particolare interesse e questo è il problema principale del film che, nella propria surreale delicatezza, si mostra privo di mordente e non lascia il segno come dovrebbe. Nonostante siano apprezzabili l'accuratezza della confezione e la ricerca di originalità nella trama, un pizzico di energia e di coraggio in più avrebbe allontanato definitivamente la pellicola dal rischio di adagiarsi in quella medietà incolore che è propria di tanto cinema nostrano contemporaneo.
Movieplayer.it
3.0/5