L'invocazione dell'anima
Quattro donne completamente diverse tra loro. Quattro donne trattenute, sospese, nel microcosmo di una grande villa di Stoccolma, agli inizi del 1900.
Agnese (Harriet Andersson) è giovane ma sta morendo di cancro, tra le più atroci sofferenze. La assistono le due sorelle Maria (Liv Ullmann) e Karin (Ingrid Thulin), che assolvono il compito più per dovere che per reale attaccamento, e la premurosa - onnipresente - governante Anna (Kari Sylwan), legata alla malata da uno stretto vincolo, scaturito dalla condivisione quotidiana del dolore (Anna ha, infatti, da poco perso la sua bambina).
Le ultime ore di vita di Agnese diventano così l'occasione e il pretesto per scrutare - come attraverso una lente di ingrandimento - l'anima tormentata delle protagoniste.
Maria, da piccolala preferita dalla madre , conserva intatta negli anni la sua bellezza sensuale, ma è vanesia, superficiale, immatura: cela, infatti, sotto ipocriti sorrisi la portata delle sue emozioni. La sua relazione extraconiugale con il medico di famiglia David (Erland Josephson) non rappresenta che l'ennesimo atto di egoismo della donna, alla quale scivolano addosso - con noncuranza - sia il tentato suicidio del marito che l'agonia della sorella. Karin, d'altro canto, sotto la sua impenetrabile corazza è invece piena di rancore nei confronti dell'esistenza e degli esseri umani, rancore che la condanna ad una continua tortura fisica e psicologica. Imprigionata in un matrimonio arido e infelice con un uomo molto più vecchio di lei, Karin non sopporta il contatto fisico con il mondo esterno, soprattutto con il padre dei suoi figli, che le suscita solo disgusto.
La rigida geometria degli ambienti, la fotografia di Sven Nykvist, il rosso che tinge gli interni - rosso che ritorna in prossimità delle dissolvenze, le quali introducono i flashback sugli episodi più significativi delle vite di Anna, Maria e Karin - contribuiscono ad illustrare la complessa dinamica affettiva tra le quattro donne ("la moribonda, la più bella, la più forte, la più servizievole", le definisce lo stesso Bergman, quattro aspetti della personalità femminile, probabilmente ascrivibili al carattere della madre del regista): la comprensione, che avvicina Anna e Agnese, si contrappone al silenzio che segna invece il rapporto tra Karin e Anna. Le grida dilanianti di Agnese costituiscono una sussurrata richiesta di pace e di conforto; i mutismi e le incomprensioni tra Maria e Karin sono in realtà grida di sfida e di acredine reciproca. Solo la definitiva resa di Agnese sembra dar loro l'occasione di un'effimera riconciliazione, dalla quale lo spettatore è lasciato in disparte, incapace di cogliere i bisbigli delle sorelle. Ma è nuovamente Agnese a svelare la precarietà della pace familiare: in una devastante metafora, Anna sente il corpo esanime della padrona rivivere e implorare, piangendo, un ultimo atto d'amore prima del trapasso. E mentre Maria e Karin si rifiutano, scappando con orrore, Anna accetta di accogliere Agnese nel suo caldo abbraccio protettivo, in una scena che è la summa della poetica bergmaniana.
Non è un caso, infatti, che siano le due figure femminili più sofferenti e sfortunate le più vicine a Dio, le uniche a invocarlo tramite la preghiera, le uniche a saper cosa significano la pietà e il perdono. Maria e Karin non hanno imparato nulla dalla morte della sorella e, dopo le esequie, liquidano Anna con cinismo, allungandole qualche banconota. Si dividono, Maria e Karin, ancora distanti.
È allora che, dal diario di Agnese, prende vita il ricordo di un giorno felice: un assolato pomeriggio trascorso in giardino, con le tre sorelle e Anna riunite insieme, per un istante vicine.
Costruito come un mosaico, le cui tessere sono finestre che si aprono e si chiudono sulla mente e sul cuore delle quattro donne, la pellicola è una delle più simboliche nella filmografia di Ingmar Bergman, strutturata su un'evidente polarità: i sussurri e le grida rispecchiano gli opposti rapporti interpersonali che intercorrono tra le protagoniste, dettati dalla presenza o dall'assenza della fede in Dio, dell'amore o dell'indifferenza. Una memorabile riflessione sull'incomunicabilità umana, ispirata al teatro di Strindberg e alle vicende autobiografiche del regista svedese, capace - grazie all'uso psicologico della musica e del colore - di scalfire le certezze dello spettatore sulla vita, la morte, la famiglia.