L'inno all'amore e alla vita
Come rintocchi funebri di campane, le note che compongono il più cupo degli inni liturgici aprono Dies Irae, tredicesima regia del danese Carl Theodor Dreyer. L'ombra della croce si proietta sugli apocalittici versi di Tommaso Di Celano così come incombe sulle inquiete coscienze di personaggi che si muovono fragili sulla scena di un mondo tormentato dalla colpa; dove un vento freddo percuote gli immensi spazi nordici e agita corpi ed animi, ricordando, come un lugubre memento, la terribilità del dio luterano, impenetrabile divinità che non promette pace, né concede certezze di salvezza.
L'opera che Dreyer trae dal romanzo Anne Pedersdotter di Hans Wiers Jensen e dal dramma di Karl Gustav Vollmoeller, ha la solenne bellezza di un gelido diamante, intagliato con severa asprezza ed insieme palpitante d'una vitalità impetuosa che segretamente si dibatte nella speranza di traboccare in tutto il suo deflagrante vigore. La costante ricerca di una rigorosa misura formale, condotta dal grande regista danese, giunge, con Dies Irae, ad uno degli esiti più alti. Attraverso un processo di essenzializzazione dei mezzi espressivi, Dreyer recupera, per sottrazione, il nucleo essenziale del suo sistema linguistico e poetico, che ha nell'uomo e nei suoi conflitti interiori il suo punto di riferimento; ad esso dovrà quindi subordinarsi l'intera struttura formale. Assunto questo, sarà facile comprendere perché Dreyer riduca al minimo i movimenti di macchina e fissi, implacabile, il suo occhio sui personaggi. È infatti sui loro volti, negli sguardi che si incontrano e scontrano, trepidando d'inquietudini trattenute, che le singole verità dei personaggi si rivelano in tutto il loro disarmante dolore.
Immerso in un cupo clima di colpa, soffocato da un senso di morte che schiaccia ogni timido slancio vitale e strangola, nella sua morsa, i sentimenti più teneri, i gesti più sinceri, Dies Irae diviene, in un crescendo di tensioni e angosce sempre più scoperte, un dirompente urlo di ribellione all'intolleranza ed alle superstizioni. Un inno alla vita e alle gioie dell'amore contro la disumanità di quelle ideologie che intendono uniformare volontà e desideri individuali ad un pensiero unico ed universale e che rinviano la felicità umana ad un'eventuale dimensione trascendente a cui si accede solo con la morte. Quello di Dreyer è un mesto, austero canto rivolto all'uomo, alle sue concrete aspirazioni di felicità e alle sue verità scavate nella carne, quella medesima carne sacrificata nel fuoco del rogo per compiacere i sovrumani precetti d'una divinità sorda. Con sguardo pietoso ma insieme cosciente dell'ineluttabilità del dolore, l'autore indaga nei sentimenti taciuti, nei dubbi angosciosi dei personaggi, con acuta sensibilità psicologica, senza però dimenticare l'impossibilità e l'inopportunità morale di chiarire ogni singola zona d'ombra, aderendo così alla costitutiva ambiguità che guida tutte le azioni umane e alla relatività di ogni scelta e giudizio. Non esistono colpe da additare né facili assoluzioni a cui aggrapparsi, ciò che Dreyer ci mostra è l'essenza di nudo dolore che pregna l'umano esistere, quel vacillare di anime minacciate dal dubbio.
Il talento di Dreyer come pittore dell'intimo tocca il suo apice nello splendido ritratto di Anne (interpretata da Lisbeth Movin). In lei è possibile riscontrare numerosi tratti che la pongono vicina ad un'altra straordinaria figura femminile che è Gertrud, dall'omonimo film testamento del regista. Le due fondamentali donne dreyeriane (a cui va aggiunta, almeno per rapida menzione, Giovanna d'Arco; non donna, ma fragile e candida giovinetta dalla fede ardente, schiacciata da una concezione della religione che, analogamente a ciò che avviene in "Dies Irae", ignora pietà e compassione) sono accomunate non solo dal delicato e profondo scavo psicologico attraverso cui l'autore ce le restituisce sullo schermo, ma anche, e soprattutto, da una viscerale, incoercibile vocazione ad un amore assoluto che la vita ha loro negato, condannandole alla sconfitta. Così, nella Danimarca del XVII secolo, la giovane Anne Pedersdotter, che sogna l'amore, lo brama con occhi ardenti di vita, è costretta a sposare il reverendo Absalon Perderssön (Thorkild Roose). Quando ella era ancora una bambina, sua madre era stata scagionata dalle accuse di stregoneria grazie all'intervento del rispettabile pastore Absalon che così, legandola ai doveri della riconoscenza, si era arrogato il diritto di "prendere" Anne, indifferente alla volontà o ai desideri della piccola ragazza. Marte Herlofs (Anna Svierkier), anche lei accusata di essere una strega, si rifugia in casa degli Absalon nella speranza di scampare al linciaggio. Verrà catturata e torturata. Crede di poter scongiurare la minaccia del rogo ricattando il pastore: ella è infatti a conoscenza del peccato di cui si era macchiato Absolon salvando la madre di Anne (pur sapendola una strega) al fine di ottenere la mano della figlia. Lo sguardo compassionevole di Dreyer accarezza la sofferenza di Marte, non la giudica; ci mostra, piuttosto, il volto di una vecchia, con i capelli scompigliati, che implora il pastore affinché la salvi dal fuoco. Non le preme la salvezza dell'anima; non le importa né del cielo né dell'inferno, ha solo paura di morire. In questo confronto, denso d'esitazioni, di luci e di ombre, affiora con chiarezza il centro nodale dell'assetto ideologico del film: l'irriducibile contrapposizione tra idealità e concretezza, tra spirito e corpo.
Le preghiere di Marte non verranno ascoltate e verrà arsa al rogo senza riuscire a denunciare il segreto di Absalon. Subdole inquietudini, però, serpeggiano nella mente del pastore, dubbi sulla colpa di cui si sarebbe macchiato. La sua coscienza trema, incalzata dall'ombra spaventosa del peccato. L'anziana madre del pastore, che detesta Anne (forse perché a conoscenza del compromesso morale a cui Absalon si è piegato per sposarla), teme per le sorti del figlio, desidera per lui la salvezza eterna. Insinua nel figlio il timore che la sposa da lui scelta sia una strega esattamente come la madre. L'ingenua Anne, che ancora conserva intatta la sincera e limpida curiosità dei bambini, priva di pregiudizi, è affascinata dai diabolici poteri che la credenza popolare e il fanatismo religioso attribuiscono a sua madre. Di ritorno da una lunga permanenza all'estero, Martin (Preben Lerdorff Rye), il giovane figlio del pastore, si trova dinanzi una matrigna poco più che adolescente. Anne, sacrificata ad un marito incapace di renderla felice, troppo vecchio anche per darle un figlio, si innamora del figliastro e a lui si abbandona con la dedizione di chi non ha nient'altro a cui aggrapparsi. Squarci di felicità possibile si spalancano su ampi scorci paesaggistici, dove la natura con i suoi alti arbusti, libera da costrizioni e paure, si allunga verso il cielo; ma la gioia dei due giovani amanti non è mai vissuta con pienezza. Ogni immersione nel lieto paesaggio naturale è resa impossibile da sinistri indizi di morte. La frattura fra l'io e la realtà esterna è ormai insanabile, l'armonia persa per sempre e tutti i partecipanti a questo cupo dramma ripiegano su se stessi, distanti l'uno dall'altro, incatenati dall'orrore del peccato. Ad Anne non rimane che sognare una felicità semplice, fatta di cose umili ma ugualmente impossibili: una casa, una famiglia con l'uomo che ama. La coscienza di questa impossibilità non fa altro che acuire nella ragazza l'insofferenza nei riguardi di Absalon, visto come suo carnefice, come l'artefice della propria infelicità. Desidera ardentemente che il marito muoia e quando una notte confesserà il rapporto che ha stretto con il figliastro, il vecchio pastore stramazzerà al suolo senza vita. La suocera, che provava per suo figlio un affetto smisurato, accusa Anne di maleficio e Martin, dilaniato dai sensi di colpa, finisce per convincersi che la donna a cui aveva promesso protezione e riparo dalle offese, sia in realtà una strega.
Adesso Anne è sola. La macchina da presa si stringe sul primo piano del suo volto. Sullo schermo solo lei e il suo dolore, tutto il resto è fuori campo, tutto il resto non esiste più. Tutto quello in cui credeva l'ha tradita, non ha più senso lottare. Ma è nella rassegnazione che il personaggio di Anne conquista una sorprendente statura tragica. Autoaccusandosi, lascia che quegli ingenui sogni d'amore e felicità, costruiti insieme all'uomo in cui confidava, distruggendosi, le crollino addosso. Sono il dolore e l'assoluta coscienza delle scelte compiute a conferire ad Anne un'autentica dimensione eroica. Il finale chiude il film nel medesimo modo con cui ha avuto inizio: i versi del "Dies Irae" e l'ombra della croce. Questa volta, però, non la croce latina, ma una croce tombale suggella l'ultima sequenza. La morte ha trionfato anche su Anne, l'unica che, all'interno del ristretto sistema di personaggi su cui ruota l'opera, ha avuto il coraggio di cercare la vita e l'amore.
Dies Irae è stato scritto e diretto da Dreyer nel 1943, durante la dominazione nazista della Danimarca, cominciata tre anni addietro e vissuta dall'intera nazione con una rassegnazione che per certa critica storicista è da associare alla remissività con cui Anne accetta la sua condanna. Questo tipo di contestualizzazione è opportuna nella misura in cui questa non prevalga sulla profonda dimensione umana del film. Al contrario, risulterebbe riduttiva qualora si volesse ricondurre ciascun personaggio, dotato d'individualità e sofferta verità, a mere funzioni all'interno di una costruzione metaforica del tutto estranea alla vicenda narrata. La grandezza dell'opera di Dreyer è interamente racchiusa nel suo sguardo, nel respiro lento e solenne con cui prende forma l'azione, nel crescere di una tensione che non deflagra mai in urlo straziante, ma che permane in un sommesso pianto, come una condanna di dolore a cui l'uomo non può sottrarsi e che continua a incombere come unica certezza.