L'infinito, Umberto Contarello e la poesia delle "scene che non servono a niente"

"Cerco la lirica, senza l'ossessione di piacere a tutti. Il mio cinema? Come il suono silenzioso di Miles Davis". Il nostro incontro con l'autore, che ha debuttato alla regia in un film da non perdere (scritto insieme a Sorrentino). Al cinema.

Umberto Contarello e Paolo Sorrentino sul set

"A seconda dei film che ho scritto, ho dato diverse parti di me, senza nessuna certezza. Solo le persone pericolose sono sicure di sé. Ora, ho preso una parte di me per vestirla, facendola diventare un personaggio". Sguardo furbetto, sorriso ammiccante, parole soppesate, a volte irruente, a volte dolci. Incontriamo Umberto Contarello in un albergo nel centro di Roma, per parlare con lui del suo debutto da regista, L'infinito. L'autore, dopo aver firmato alcuni dei più grandi film italiani degli ultimi trentacinque anni, afferra la macchina da presa e racconta, con fare sornione, lirico, a volte tragico e a volte umoristico, la vita di uno sceneggiatore (guarda caso) che, finché può "vive nel lusso", scacciando un declino artistico che sembra inesorabile.

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Contarello sul set

Ne L'infinito, scritto insieme a Paolo Sorrentino (e gli echi sorrentiniani sono splendidamente presenti), si parla di tutto, non solo di cinema. Del resto, per Contarello, "Cerco di non parlare di cinema, perché altrimenti sarebbe una noia infinita. Per questo magari poi parlo di poesia o di musica. Sono elementi che si distinguono dal racconto: c'è un lavoro sulla sintesi delle frasi, e sulla capacità mistica. Si tende ad alternare ciò che si esprime a ciò che si fantastica".

L'infinito e la vicinanza alla forma lirica

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Una scena de L'infinito

Ne L'infinito, il protagonista, interpretato dallo stesso Contarello, disquisisce con Marianna (Carolina Sala), giovane sceneggiatrice, sull'importanza delle scene inutili. Qualcosa che contrasta coraggiosamente la logica del turning point, spinto dall'egemonia delle piattaforme. "Le scene inutili sono il corrispettivo di ciò che diceva Miles Davis: suonare in silenzio", dice il regista. "Davis ha rivoluzionato il suono del Novecento, quando il virtuosismo della quantità imperava. Per lui il suonare voleva dire suonare poco. Lui cercava il silenzio. Come Palazzo Ducale a Venezia, che alterna il vuoto al pieno. Le scene inutili regalano allo spettatore un'attività fondamentale: farsi il proprio film".

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Dietro le quinte del film

Contarello ha lavorato con Sorrentino, Carlo Mazzacurati (a cui viene dedicato il film), Gabriele Salvatores, Giuseppe Piccioni, Gianni Amelio, Bernardo Bertolucci, Edoardo De Angelis. Il suo L'infinito, però, ha cercato di avvicinarsi ad una forma più astratta, meno compressa, "Con il tempo, avendo così dato parole a grandi autori, mi reputo fortunato. Ho collaborato con tutti i grandi autori, e mi sono accorto a posteriori che mentre si fa non si deve pensare a ciò che si sta facendo, ecco. Con il mio film, stavo tentando di esprimere e raccontare qualcosa di somigliante ad una forma lirica e meno narrativa. Vicino alle canzoni. Adoro le canzoni. Sono facilmente riconoscibili, perché ingenue".

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La fotografia di Daria D'Antonio e la musica di Danilo Rea

Dietro L'infinito un grande cast tecnico: la fotografia di Daria D'Antonio - non un bianco e nero, ma una scala di grigi -, il montaggio di Federica Forcesi, la Roma fugace nella scenografia di Erika Aversa, e poi le musiche originali firmate da Danilo Rea. "Sono amico di Danilo Rea da qualche anno. Sono un sassofonista fallito, e per tutta la vita ho cercato di avvicinarmi al linguaggio esoterico dei musicisti", confida Contarello. "Con Danilo condividiamo un menage a trois: io, lui e l'amore per la melodia. Quell'elemento che unisce poesia e musica. Tutti i romantici cercano la melodia. E Rea è melodico in modo estemporaneo".

Straordinaria l'ottica cromatica della D'Antonio, che arriva dal grande lavoro per Parthenope di Sorrentino. "Quando ho incontrato Daria D'Antonio per la prima volta le ho chiesto una scala di grigi, non il bianco e nero. Se sei artista questo lavoro riserva delle bellezze incredibili, e nessuno del gruppo aveva fatto un film in bianco e nero. Cambia tutto: i vestiti, gli oggetti. Daniela Bellini, la costumista, ha fatto un lavoro di grande gusto", prosegue il regista.

Il pubblico come amico

Ostinatamente contrario (come il suo film, che definiremmo una sorta di gemma cinematografica), Contarello spiega che il film non ha necessariamente il grande pubblico come fine ultimo: "In tutta la mia vita non ho mai pensato al pubblico, e non per snobberia, ma per un ragionamento semplice: non credo di essere una persona unica, ma se qualcosa piace a me, vuoi mettere non ci sia nessuno che possa apprezzare ciò che faccio? Speriamo solo siano molte le persone che apprezzano. La parola pubblico si può sostituire con la parola amico".

Le influenze, tra Mazzacurati e Sorrentino

Poi, un pensiero sulle influenze presenti ne L'infinito. "Come dice Carver, bisogna pensare agli influssi e alle influenze. Ne L'infinito ci sono le influenze di tutti i film che mi sono rimasti dentro, e ciò avviene quando mi fa dimenticare di me. A partire da John Wayne ne I cavalieri del Nord di John Ford. Un film western, ma lì ho capito quanto il filo della lirica e della poesia copra la dannazione della trama", e prosegue, "Ci si influenza, anche in ascensore. Con Paolo Sorrentino apprezziamo cose che magari non possiamo utilizzarle a vicenda. Condivido il gusto di cose diverse, e attraverso il gusto riconosciamo qualcosa in grado di portarci via".

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Una scena de L'infinito

Infine, un tra traccia tra Carlo Mazzacurati e Paolo Sorrentino. "Sono due registi che si sono semore parlati. Carlo è stato molte cose. È stato l'autore che mi ha aperto la possibilità di far convivere la passione per il racconto, e quindi per la storia che manda avanti un film facendola scomparire sotto il velo della lirica. A noi ragazzi di venticinque anni chiesero di essere classici: una bella storia, una bella fotografia, il suono in presa diretta. Andando avanti siamo diventati più responsabili, miscelando quella libertà espressiva che potesse portare più spazio". Una questione di regole, da tradire per perseguire il miglior senso artistico. "Dovevamo seguire le regole che oggi non verrebbero accettate, potendo cambiare l'obbiettivo del film dopo un quarto d'ora. Il massimo della narrazione. Oggi sarebbe impensabile per molti".