L'imperativo è "dimenticare". E anche in fretta
Quando la memoria e il ricordo divengono meccanismi difettosi, in un certo senso latitanti, ecco che le sacrosante verità che descrivono e insieme definiscono la nostra realtà finiscono per dissolversi, regalandoci una vita alternativa, parallela, fatta da tante finzioni e suggestioni che di fatto non esistono se non nella nostra mente. Non a caso l'affascinante claim della pellicola recita: "E se scopriste che tutti i vostri ricordi più cari non sono in realtà mai accaduti?"
Una riflessione quanto meno stimolante quella che, almeno nelle intenzioni, il bravo e collaudato Joseph Ruben (A letto con il nemico, L'innocenza del diavolo) ha inteso proporre al pubblico con The Forgotten. Una premessa tematica accattivante a cui si è andata peraltro ad aggiungere come forte credenziale la partecipazione da assoluta protagonista di Julianne Moore, un'attrice così brava da costituire una certezza di qualità in un qualsiasi cast & credits.
E in effetti, dopo la visione del film, non possiamo che constatare come la sua performance risulti comunque di gran rilievo. Diciamo "comunque" perché il suo ruolo non sempre appare convincente, come del resto l'intera storia.
La narrazione vive senz'altro di due momenti: una prima parte piuttosto descrittiva e "scenografica" dove ambienti e resa cromatica appaiono funzionali al sentimento di inquietudine ed angoscia provato dalla Moore e dettato dall'imprevisto lutto di suo figlio; una seconda parte impiegata per offrire risposte alle domande irrisolte, rivelando l'oscura verità dell'intreccio. Ed è qui che, a sorpresa, Ruben fallisce miseramente l'obiettivo conferendo al _plot _ quella leziosa ed eccessiva verbosità che fa evaporare ogni tensione, eliminando quel pathos necessario al coinvolgimento della platea.
Tutto finisce per divenire così ovvio e scontato da indurre addirittura ad un sorriso imbarazzato al momento della "grande rivelazione". Poi il nulla più assoluto.
Insomma un grandissimo buco nell'acqua dove vanno ad affogare rispettivamente un regista diacronicamente bravo nel realizzare thriller, un Gary Sinise costantemente a disagio nei panni dello psicologo di turno, e soprattutto un narrato che anziché definirsi per le sue tinte fantastiche ed introspettive si farà ricordare (o è il caso di usare il verbo "dimenticare" ?) per la sua inconsistenza, questa sì memorabile. Dal "diluvio universale" e l'annegamento generale, oltre alla Moore si salva sicuramente Anastas N. Michos, abilissimo direttore della fotografia già ai tempi di Man on the Moon di Milos Forman.
Presumibile che dato il lancio impattante della campagna il film vada bene ai botteghini. Difficile però immaginare che entrerà nell'Olimpo dei film divenuti memorabili perché andati incontro ai gusti della gente.