Il quadrilatero no, non l'avevo considerato
La situazione del classico triangolo borghese, moglie-marito-amante, con tutto quel che ne consegue in termini di tradimenti, gelosie, ripicche e crisi coniugali, è uno degli archetipi consolidatisi da tempo nella tradizione drammaturgica europea, tanto da essere divenuto ormai pressoché uno stereotipo, se non un mero reperto da archeologia. Happy Few, opera seconda del francese Antony Cordier, il cui esordio Douches froides era stato presentato a Cannes nel 2006, prova a ravvivare questa stantia geometria sentimentale, inscrivendo questo volta il proprio teorema in un atipico caso di quadrilatero amoroso.
Protagoniste infatti sono due coppie alto-borghesi - composte da Vincent (Nicolas Duvauchelle) e Teri (Élodie Bouchez) e da Franck (Roschdy Zem) e Rachel (Marina Foïs) - che, dopo una cena organizzata quasi per caso, finiscono istintivamente per dare vita a una relazione erotica di tipo libero e aperto, scevra da condizionamenti morali o sociali. All'inizio i rapporti tra Teri e Franck e tra Rachel e Vincent sono improntati esclusivamente su un'attrattiva di tipo sessuale, senza che si creino complicazioni dovute a coinvolgimenti emotivi. Anzi, è proprio attraverso il sesso e il contatto corporeo che i personaggi imparano a conoscersi reciprocamente, ma anche a sondare aspetti della propria personalità fino a prima nascosti e repressi. Il meccanismo, tuttavia, comincia a incrinarsi man mano che i legami incrociati tra le coppie si rafforzano sempre di più, fino a superare per intensità quelli più tradizionali di stampo coniugale. Riaffiorano così nuovamente le complicazioni e gli inevitabili condizionamenti di cui i quattro amanti avevano tentato di liberarsi. Cordier conduce i propri personaggi entro una traccia rigidamente teorica, contrapponendo in maniera programmaticamente speculare le personalità delle rispettive coppie (gli istintivi Franck e Teri contro i razionali Vincent e Rachel). Happy Few è tutto giocato sulle binarie opposizioni tra i protagonisti, che interagiscono reciprocamente soprattutto attraverso il linguaggio del sesso, illustrato attraverso delle sequenze particolarmente esplicite e audaci. Uno dei pregi del film è quello di riuscire a trasmettere il progressivo incontrarsi dei caratteri attraverso uno stile intimo e quasi "tattile", in cui prevale il contatto ravvicinato e la macchina a mano, anche se molto del merito è naturalmente da attribuire alle naturali e spontanee performance degli interpreti.Tuttavia Happy Few, pur sconfessando l'archetipo originario del triangolo borghese, finisce nel cadere nel medesimo stereotipo autoreferenziale e ombelicale (lo stesso che più o meno si rimprovera al cinema intimista italiano). I temi sono sempre i soliti, dalla crisi di coppia alla volontà (disattesa) di trasgredire le convenzioni sociali, e per di più affrontati secondo l'impostazione del cinema autoriale tipicamente francese. Non sembra, insomma, che Cordier abbia l'urgenza di dire qualcosa di nuovo; si limita piuttosto a operare un cambio della "prospettiva geometrica".