Giulio Ricciarelli, il regista esordiente de Il labirinto del silenzio, il film scelto dalla Germania per la corsa agli Oscar 2016, ci aveva parlato durante la conferenza stampa romana di presentazione del suo film di una "Olocausto fatigue", termine con il quale gli storici americani si riferivano al "sentimento di stanchezza" che accompagna il lavoro sulla memoria portato avanti dalla Germania dopo la scoperta degli orrori perpetrati all'interno di quelli che all'epoca venivano chiamati "campi di protezione". E se il film di Ricciarelli ci ha portati nella Francoforte degli anni '50 che cercava di nascondere dietro un'apparente freschezza e vivacità le morti lasciate alle sue spalle, ecco che con Il figlio di Saul torniamo nell'Inferno fatto di camere a gas e forni crematori di Auschwitz-Birkenau.
Se, poi, Il Labirinto del Silenzio ci ha fatto scoprire un aspetto inedito legato alle azioni criminali commesse da SS e comuni cittadini vestiti da carnefici, un altro esordiente, László Nemes (già assistente alla regia di Béla Tarr), fa riaffiorare dall'oblio della storia il triste quanto controverso destino dei SonderKommand, gruppo di deportati scelti dalle Schutzstaffel hitleriane, per la loro robustezza e prestanza fisica, per occuparsi, in un lasso di tempo che si aggirava sui quattro mesi, del funzionamento delle camere a gas e dei forni crematori, prima di essere uccisi esattamente come gli altri ebrei che avevano accompagnato a morire.
Nemes, a sessant'anni di distanza da quegli avvenimenti atroci, ci fa conoscere un altro aspetto, ai più sconosciuto, di una delle pagine storiche più analizzate a sviscerate ma che non smette di stupirci d'orrore. Per farlo appoggia, letteralmente, l'interno film sulle spalle di Saul Auslander (Géza Röhrig), membro ungherese del Sonderkommando, ormai del tutto alienato alla mostruosità di quel luogo e quei gesti, fino a quando, pulendo le docce da sangue e corpi ormai senza vita, sente il respiro affannoso di un ragazzo sopravvissuto al gas letale che di lì a poco verrà soffocato da uno dei medici/macellai del lager. Nei lineamenti di quel giovane riconosce suo figlio e da lì inizia per lui la frenetica ricerca di un rabbino che lo aiuti a nascondere e seppellire con rito ebraico il corpo, tanto da voltare le spalle ai suo compagni intenti in un piano di ribellione e fuga dal lager. Il tentativo di una parentesi di sacralità in un luogo che aveva azzerato ogni briciolo di rispetto per la vita e per la morte.
Vittime tra le vittime
Gli ebrei deportati che venivano isolati dai lager e ai quali veniva concesso cibo e dormitori riscaldati erano invidiati e disprezzati dagli altri prigionieri relegati nei capannoni perché vedevano in loro dei traditori. Un punto di vista condivisibile nei confronti di chi ha perso tutto, dai beni materiali alla libertà, ma che non tiene conto di verità a loro celate. Perché se è vero che i SonderKommando avevano dei privilegi era anche vero che quelle azioni erano estorte con violenza, con armi cariche puntate contro di loro e che l'unica reale libertà a loro concessa, l'unico modo di opporsi a quelle azioni, era il suicidio. "I membri del SonderKommando erano terrorizzati e traumatizzati e quello al quale sono dovuti andare incontro è inconcepibile. Ogni giorno vedevano migliaia di persone morire nel giro di quindici minuti e alcune volte quelle stesse persone venivano dal loro Paese o villaggio. Erano obbligati ad entrare in quelle camere a gas e pulire tutto per non allarmare il gruppo successivo. Era un sistema che prevedeva l'ausilio pratico del minor numero di tedeschi, l'aspetto più demoniaco delle SS che lasciavano quel lavoro nelle mani delle stesse vittime" ha raccontato Géza Röhrig, il poeta ungherese al suo debutto cinematografico con il ruolo di Saul del quale ha saputo riportare sullo schermo tutto lo spettro delle sue emozioni.
"L'uomo che uccide l'uomo è un antico fenomeno ma qui c'è qualcosa di nuovo. Gli assassini, delegando, possono sentirsi innocenti. Era riservato ai SonderKommando il compito di portare gli altri deportati nelle camere a gas, erano loro che dopo dovevano pulire, disinfettare, togliere i corpi, attivare i forni o polverizzare le ossa. Finita la guerra erano loro a sentirsi colpevoli e non chi li aveva costretti perché le SS non si dovettero confrontare direttamente con quelle azioni. Un modo scientifico di uccidere che si è acutizzato in questi anni. Oggi i droni sganciano bombe a chilometri di distanza e chi lo fa non vede i volti di chi uccide, non sente gli odori" ha aggiunto il neo interprete, tessendo un ponte tra passato e presente, confrontando due orrori lontani nel tempo ma simili nella lucida mostruosità.
Un ruolo complesso il suo, accentuato dalla macchina a mano che ne segue i movimenti, portandoci ad una vicinanza tale con il suo volto, le sue spalle, il suo sguardo da farci quasi sentire l'odore pungente delle camere a gas o il caldo infernale dei forni crematori. Un personaggio nato anche attraverso lo studio, la ricerca, il dettaglio come ci ha raccontato lo stesso attore: "Per poter unire il divario tra il mio mondo e la loro realtà ho avuto la letteratura come risorsa. Ho letto moltissimo, anche le memorie dei SonderKommando che negli anni '80 hanno iniziato a scrivere quello che era accaduto perché non volevano lasciare il mondo senza renderlo a conoscenza di cosa fosse successo in quei campi. Anche leggere Primo Levi mi ha aiutato a capire il loro dilemma" aggiungendo poi una dolorosa parentesi personale che l'ha aiutato nel lavoro di costruzione di Saul ma che lo ha anche formato come individuo. "Ha dodici anni ho trovato in una scatola di scarpe delle foto. Dai contorni zigzagati e dal loro colore ho capito che erano vecchie. Quando ho chiesto a mio nonno chi fossero quelle persone il suo volto è immediatamente cambiato. Mi ha portato nel suo studio e con una voce che non gli avevo mai sentito prima mi ha detto che erano i suoi genitori, suo fratello minore e sua sorella, all'epoca incinta, che non erano mai tornati dai campi di concentramento. Quel racconto non mi ha mai più abbandonato. Gli sono molto grato perché mi ha aiutato a capire e perché ho realizzato a cosa fosse dovuto il suo atteggiamento protettivo. Avevo la stessa età di suo fratello minore e sentiva di aver fallito con lui non riuscendo a salvarlo".
L'orrore sfuocato
La pellicola, vincitrice del Grand Prix Speciale di Cannes68 e co-sceneggiata da Nemes con Clara Royer (dopo circa sette anni di gestazione), unisce la potenza e la forza del racconto con la raffinatezza dei mezzi espressivi. L'utilizzo già accennato della macchina a mano con l'obiettivo focalizzato sul protagonista insieme con l'impiego del formato a quattro terzi limitano lo sguardo della macchina da presa, lasciando sullo sfondo l'orrore che viene solo accennato dai contorni sfumati dei corpi senza vita, della disumana quotidianità nei campi di concentramento, dagli spari sordi delle armi delle SS o dai rumori assordanti, martellanti e demoniaci dei forni, delle urla o delle percosse. Una precisa scelta registica che fa de Il Figlio di Saul non solo un film potente, doloroso, e nella sua atrocità bellissimo, ma anche un'opera complessa, studiata, raffinata. "Siamo dell'idea che l'Olocausto non possa essere mostrato come un'esperienza collettiva. Il meglio che potevamo fare era quello di creare una dialettica suono/immagine, il resto sarebbe stato pornografia. Tutte le immagini che si vedono sfocate sono compensate dal suono, ricostruito in post-produzione grazie ad un lavoro incredibile che ha richiesto giornate intere. Anche la scelta di non inserire interruzioni non necessarie era focalizzata a riprodurre nello spettatore la sensazione di trovarsi lì. Invece dei 200 tagli medi un un film qui ce ne sono circa 80 e per farlo, prima di iniziare a girare, facevamo prove di 2/3 ore" precisa Röhrig.
La potenza dell'empatia
In un contesto così estremizzato, rapace, dove gli uomini sono messi l'uno contro l'altro per sopravvivere e dove la ritualità delle uccisioni aveva assunto dei ritmi da vera a propria fabbrica della morte, Saul riconosce un bagliore di umanità nella forza di una ragazzino capace di sconfiggere, nel suo corpo esile di adolescente, la fine scelta per lui da un disegno esaltato ed insensato, andando contro la logica e la ragione, spinto da un progetto quasi utopistico ma forse, più semplicemente, simbolico: trovare un rabbino che reciti il Kaddish e seppellire quel corpo, rappresentazione carnale della vita che supera la morte. "Dopo la proiezione del film alcune perone erano arrabbiate. Mi dicevano che Saul era un pazzo a non unirsi alla rivolta per seppellire un ragazzo mentre contemporaneamente nel campo ne stavano morendo a migliaia. Credo, sempre rispettando il sentire altrui, che questo sentimento nasca dal non capire le sue ragioni più profonde. L'istinto di sopravvivenza è innato ma ha anche una componente egoistica e animalesca. La domanda qui è se c'è qualcosa di più importante ed elevato di questo. Non volevamo fare di lui un Santo. Saul è un uomo ordinario che però compie qualcosa di straordinario. Quello che compie è su un livello più alto di quello che fanno gli altri suoi compagni" puntualizza l'attore che aggiunge: "Il nostro film non ha un happy ending hollywoodiano ma è pieno di speranza. Quel ragazzo che sopravvive alla camera a gas e viene soffocato dal medico delle SS rappresenta una morte che si distacca dalle altre e Saul ne è l'unico testimone. Emerge in lui un'empatia dopo mesi di orrore nei quali non provava più nulla e l'unico modo che ha per omaggiare un morto è quello di seppellirlo. Il suo cognome, Auslander, in tedesco significa "straniero" ma per me è piuttosto un extraterrestre per il suo comportamento".
Impossibile, in chiusura, non chiedere a Géza Röhrig cosa provi all'idea di vedere Il Figlio di Saul vincere il Premio Oscar come miglior film straniero ai prossimo Academy Awards: "Non mi interessa granché dell'Oscar e non lo dico per falsa modestia. Credo che la vittoria dipenda anche molto da una componente di fortuna. Quello di cui vado realmente fiero è che si tratta di un film low buget girato con un milione di euro in ventotto giorni. Non sono in molti che oggi punterebbero su un progetto del genere" per concludere poi la conferenza con una riflessione. "Per me la parte più difficile è arrivata dopo il film. Non ero depresso ma malinconico. È stato difficile tornare alla mia vita di tutti i giorni perché sono tornato in una realtà che mi sembra troppo artificiale e paradossalmente avvertivo che Auschwitz era un posto più vero perché ti toglieva tutto tranne la parte di te più autentica".