Una piccola e insolita coproduzione tra Italia e Sri Lanka, che si fa largo a colpi di melodramma seppur condito da punte di puro realismo. È il quarto lungometraggio del regista Sanjeewa Pushpakumara, si chiama Il canto del pavone e affonda le mani nella contemporaneità socio-economica di un paese, lo Sri Lanka, che solo lo scorso aprile con un debito estero di 46 miliardi di dollari andava in default con un presidente, Gotabaya Rajapaksa, in fuga alle Maldive e folle oceaniche di cittadini in rivolta per le strade della capitale Colombo. Oggi la sua economia dipende strettamente da quella cinese, Pechino detiene infatti il venti per cento del debito del paese e solo di recente ha accettato di ristrutturarne i prestiti. Come analizzeremo meglio nella recensione del film, è proprio in questo contesto di forte impatto derivante dai legami con la Cina, che va delineandosi la storia raccontata da Pushpakumara.
Una storia di miseria e resistenza
Una storia di miseria e sopravvivenza con diversi riferimenti autobiografici: segnato dalla prematura scomparsa del padre e da una vita difficile, il regista porta sul grande schermo la sua esperienza realizzando con Il canto del pavone una sorta di parabola morale. I temi sono quelli ricorrenti, già affrontati nei suoi film precedenti (come Burning Birds): la violenza, la povertà, la lotta quotidiana per sopravvivere agli stenti, i compromessi e le umiliazioni a cui si è disposti a scendere nella disperazione. Sullo sfondo la rapida urbanizzazione dello Sri Lanka, una modernità selvaggia che divora i più poveri e arricchisce le classi più abbienti andando a ingrossare spesso i loro loschi traffici.
È all'interno di questa cornice che Sanjeewa Pushpakumara decide di far muovere i personaggi della vicenda a partire dal protagonista, il suo antieroe, il giovane Amila, nato in un piccolo villaggio dello Sri Lanka e abbandonato subito dopo aver perso entrambi i genitori. Insieme ai quattro fratelli più piccoli decide di andare a vivere a Colombo, dove inizia a lavorare in un cantiere cinese per garantirgli una vita dignitosa, ma soprattutto per salvare la vita alla sorella Inoka, affetta da un difetto congenito al cuore curabile solo con una costosissima operazione chirurgica da fare in India. I soldi guadagnati come operaio però non bastano, per l'intervento ne servono molti di più: così Amila finisce per fidarsi della persona sbagliata, Nadee, una donna al centro di un traffico di adozioni illegali e neonati da vendere a coppie di bianchi benestanti e occidentali. I clienti sono infatti francesi, svedesi e olandesi; ad Amila toccherà fare da autista per trasportare in un camion di biscotti il prezioso carico umano di giovani donne incinte.
Tra melodramma e denuncia sociale
La regia si affida a un registro prevalentemente melodrammatico, ma non dimentica la denuncia sociale. A definire il paesaggio in cui matura l'epopea del protagonista ci pensano le inquadrature che ritraggono lo skyline della megalopoli: cantieri di edifici in costruzione, gli interni di ospedali scalcinati, le strade affollate, l'umile dimora di Amil sul tetto di un grattacielo. È uno spazio urbano che brulica di un'umanità divisa esattamente in due: da un lato gli ultimi, gli oppressi, i sopravvissuti, dall'altro la classe più agiata che vive di traffici illeciti e scambi di bustarelle, che possono comprare qualsiasi cosa. Dal punto di vista estetico Sanjeewa Pushpakumara sceglie l'essenzialità e il rigore, messi spesso all'angolo dagli eccessi di retorica quando ad esempio decide di indugiare sulla piccola Inoka dolorante in un letto d'ospedale, mentre i personaggi sono spessi privi dello spessore psicologico che meriterebbero.
Conclusioni
Concludiamo la recensione de Il canto del pavone con la consapevolezza di trovarci davanti a un’opera a suo modo originale nel tentativo di raccontare una storia di miseria e sopravvivenza nella complessa realtà economico sociale dello Sri Lanka. Il paesaggio urbano tratteggiato dal regista gioca un ruolo fondamentale per definire l’ambiente e l’atmosfera in cui matura l’epopea del protagonista: il brulicare della megalopoli con i suoi cantieri di edifici in costruzione, gli interni di ospedali scalcinati, le strade affollate definisce i confini di un mondo diviso tra alto e basso, sommersi e salvati, ricchi e poveri. Peccato per gli eccessi di retorica.
Perché ci piace
- Lo stile essenziale e rigoroso.
- La definizione del microcosmo in cui si muovono i protagonisti, attraverso lo skyline della metropoli srilankese: in alto le gru, i cantieri dei grattacieli in costruzione, la modernizzazione selvaggia, in basso gli ospedali scalcinati, le strade affollate, l’accattonaggio.
Cosa non va
- Svolte narrative affrettate.
- L’eccesso di retorica e toni melodrammatici.
- Personaggi privi dello spessore psicologico che meriterebbero.