Il buio nell'anima
La vita dell'attore Johnny Marco è completamente vuota, malgrado la sua carriera hollywoodiana sia soddisfacente e la camera del famoso hotel Chateau Marmont in cui alloggia sia ogni notte affollata di amici e biondone che non resistono al suo fascino di divo grunge. A dare un senso alle abitudini di un trentenne chi tira avanti edonisticamente alla giornata ci pensa la figlia undicenne Cloe che gli fa compagnia da quando sua madre ha deciso di passare un po' di tempo da sola. Trascorrendo le giornate insieme a lei Johnny recupera la paternità dimenticata e realizza che fino a quel momento la sua vita era stata una "nullità".
Delicato, disteso e determinato come l'insistita inquadratura che apre il film, con la macchina da presa fissa su un angolo arso della California percorso e ripercorso in maniera maniacale dai rombi tonanti di una sfrecciante Ferrari nera, l'ultimo film di Sofia Coppola segna il ritorno della regista a un tema che aveva già affrontato ne Il giardino delle vergini suicide, da cui sembra provenire la candida protagonista Elle Fanning, e a uno stile visivo che aveva abbracciato nell'indimenticato Lost in Translation - L'amore tradotto. Somewhere non ci cala nella complessa fragilità del mondo adolescenziale, che pure sfiora, ma ci mette di fronte a un personaggio significativo, rubato all'epoca che ha ereditato la crisi generazionale di Gioventù bruciata e delineato con un affondo psicologico progressivo come un morbido e fine grimaldello: il protagonista è un padre fuori dagli schemi che vive la sua quotidianità come in una boule à neige in cui il tempo si è incantato nel solco dell'inazione e dell'azione sempre uguale a se stessa. Perseguitato dagli SMS di una ex che rimane anonima, lo sciupafemmine Johnny, che ha infranto i cuori di donne di cui non ricorda nemmeno il nome, è una star hollywoodiana che si è ricreata un piccolo sporco e comodo mondo fatto di sesso e alcol cui è diventato così assuefatto che perfino le grottesche ballerine di lap dance che si esibiscono solo per lui davanti alla sua alcova gli conciliano il sonno. La regista e sceneggiatrice però non cade nel facile utilizzo letterario e cinematografico del conflitto generazionale schematizzato dal gap insormontabile, ma riflette su un rapporto inesistente tra un padre e una figlia che non si vedono mai, si conoscono poco e non sanno cosa dirsi. La bravura dell'autrice sta nello sviluppare il rapporto affettivo dei due personaggi senza accelerare sui toni melodrammatici, ma dilatando negli spazi intimi il tempo trascorso insieme, tra le partite a Wii, a carte e a ping pong, che contribuiscono nell'aspetto ludico a dare una parvenza di consistenza alla loro unione. Il refrain s'intesse così d'interessanti sfumature che un umorismo intelligente, la fotografia quasi sbiadita dal sole californiano enfatizza con una grazia opaca e l'armoniosa musica dei Phoenix addensano nei silenzi della lenta conoscenza. Un'immagine sembra particolarmente significativa quasi a suggerire l'evoluzione del protagonista che inizialmente appare solo una star inspiegabilmente tormentata (in contrasto con quella luce accecante che costringe a tenere i Rayban), magistralmente interpretato da uno Stephen Dorff che ricorda il Casey Affleck di Gerry: centrale, come la parte del film in cui si trova, la sequenza in cui vediamo Johnny uscire dall'inquadratura mentre è in piscina ci anticipa che il corso degli eventi sta per cambiare. L'immagine si sostituisce alla parola e ci racconta straordinariamente una storia ordinaria, come nel cinema che non dovremmo mai perdere di vista.