Recensione I topi: un grottesco Antonio Albanese gioca a fare I Soprano

La recensione de I topi: su Rai 3 arriva un ritratto graffiante del mondo mafioso, capeggiato da un Antonio Albanese ironico e ispirato.

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C'è una sottile differenza tra ridere e sogghignare. Antonio Albanese riesce a scatenare entrambe le cose. Perché la sua comicità sa essere genuina, spontanea, ma anche graffiante e agrodolce. In quel carnevale umano di personaggi assurdi, sgraziati e decadenti a cui ha dato forma c'è lo sguardo attento di un sociologo prestato alla recitazione, la poetica di un autore capace di far convivere ironia e satira. Perché se è vero che la satira è sempre derisione del potere, allora Albanese quel potere lo ha studiato e schernito sempre con maestria. E con la sua nuova, coraggiosa creatura dal titolo schietto e sferzante, I topi, continua a percorrere la stessa strada satirica. La nuova serie Rai, in onda dal 6 ottobre su Rai3, mette nel suo bersaglio il mondo mafioso, detentore del potere per vocazione, e lo fa con il tono dissacrante familiare al vecchio Cetto La Qualunque.

Se qualcuno dovesse trovare dei punti di contatto tra un politico e un boss ha già in mano l'amara risposta. Siamo certi che la nuova maschera di Albanese (esteticamente meno assurda e più canonica delle altre) potrebbe dare il via a una serie longeva, a spin-off cinematografici e a sketch teatrali. Il suo Sebastiano, latitante costretto a vivere come un rifugiato in casa, è un padre di famiglia vecchio stampo: ignorante, cocciuto e fobico.

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Un accentratore abituato a comandare attorno a cui orbitano una moglie, due figli e due zii costretti a condividere la sua prigionia forzata, costretti a vivere (appunto) come topi. Uno spunto innovativo per una produzione Rai insolita nel tono e nel formato, con sei episodi lunghi poco meno di 30 minuti. La formula da sitcom (famiglia, contesto domestico predominante, equivoci) non inganni: I topi nasconde un cuore nero che riporta a galla la sottile differenza tra ridere e sogghignare.

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La mafia si nasconde non solo d'estate - Un personaggio fobico

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i topi

Se Gomorra ha raccontato la vita disgraziata dei camorristi con tono epico e Il cacciatore ha deciso di mitizzare i buoni, I topi dell'epica e del mito non sa che farsene. Con un'impostazione teatrale nei tempi e negli spazi, la serie ideata e diretta da Albanese irride con il giusto tatto la (non) vita di un delinquente costretto a sopravvivere come può. In un contesto grottesco, dove le madonne indossano pellicce e l'illegalità è esaltata da poster dei 12 euro, questa famiglia patriarcale sembra abitare in un mondo post-apocalittico tutto suo. L'abilità registica di Albanese, aiutato da una fotografia avida di ombre, ricrea un'apocalisse privata in una casa-bunker piena di nascondigli assurdi, in cui ogni rumore è sospetto e ogni parola va soppesata. Il boss Sebastiano è un uomo profondamente afflitto dalle sue fobie, maniaco del controllo proprio perché insicuro. Pieno di odio, intolleranza e rancore, il pater familias sembra trovare rifugio soltanto negli incontri fugaci con lo zio che valgono come una seduta dallo psicoterapeuta. Nasce così un personaggio meno macchietta del solito, surreale ma a suo modo credibile. Una persona esasperata ed esasperante, che drammatizza tutto e ingigantisce ogni cosa perché la sua, in fondo, non è più vita. Tra pizzini fatti in casa e soprannomi assurdi, Albanese dipinge un graffiante ritratto di un mondo mafioso afflitto, ridicolizzato da una comicità intelligente.

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Un microcosmo sotterraneo - L'ambientazione

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Nessun uomo basta a se stesso, soprattutto se quest'uomo è un boss. Per detenere il potere bisogna sempre avere in pugno un bel gruppo di persone su cui esercitarlo. Così I topi, nonostante una visione sempre claustrofobica, non manca di allargare la sua visione dedicandosi ad altri personaggi. Gli altri componenti della famiglia tentano tutti, a loro modo, delle piccole fughe dal controllo oppressivo di Sebastiano. Una coralità gestita con il giusto equilibrio, grazie a una figlia che vuole vivere la sua vita senza coercizioni, un figlio sui generis affascinato dal veganesimo e dal mercato equo-solidale e una zia che scommette di nascosto. Nella famiglia serpeggia una velata insofferenza che rende interessante una storia ripetitiva negli ambienti e nelle situazioni, che in parte perde di ritmo nelle poche sequenza girate in esterna. In questa versione surreale e smitizzata de I Soprano, Albanese riesce a dare forma nell'arco di pochi episodi a un microcosmo sotterraneo in cui ingabbia una rete mafiosa sui generis. Il pubblico è invitato dentro un mondo parallelo in cui la mafia si barrica come moderni vampiri ottocenteschi, costretti ad aggirarsi nel loro mondo segreto, oscuro e oppresso. La speranza è che un prodotto così graffiante e acuto non se ne rimanga lì, confinato nella sua nicchia.

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3.5/5