Si scrive "giovinezza", si legge "maturità". Youth - La giovinezza, l'ultimo film di Paolo Sorrentino, racconta l'esilio della vecchiaia, ma allo stesso tempo consacra e definisce lo stile del suo autore, nel pieno della sua attività creativa. Un'opera complessa e colma di strati interpretativi che ha diviso ancora una volta, come le sue opere recenti hanno sempre fatto. Per alcuni ipnotico e poetico, per altri artefatto e assai compiaciuto di esserlo, il suo cinema è comunque capace di smuovere lo spettatore grazie ad uno sguardo critico nei confronti dell'uomo contemporaneo, ripreso nelle sue contraddizioni e nella sua smania di accettazione altrui, pronte a sprofondare in un doloroso vuoto relazionale.
Quelle di Sorrentino sembrano fotografie dinamiche che vogliono riflettere più che raccontare, contemplare più che costruire narrazioni lineari. Un cinema quasi immobile che per certi versi assomiglia al Maradona visto in Youth: un talento che palleggia, stupisce e si fa guardare anche senza fare gol, senza costruire un'azione di gioco. Questa è una delle tante metafore visive che fanno di Youth la somma della poetica di Sorrentino, un autore alla maniacale ricerca del gesto simbolico, del personaggio emblematico, del momento topico che racconti una vita intera. Noi, intanto, proviamo e destreggiarci nella sua breve ma densa filmografia e tentiamo di capire quali sono i temi a lui più cari.
1. La grande solitudine
Lo sguardo perso nel vuoto, l'espressione assente, l'abitudine di guardare in camera quasi per chiedere compagnia per lo meno allo spettatore. Spesso celati dietro un paio di vistosi occhiali o coperti da strati di trucco, i protagonisti dei film di Sorrentino sono sempre uomini e sono sempre uomini soli. Persone più o meno egocentriche, rintanate nel proprio io e lontane da qualsiasi rapporto di autentico affetto. Sono fratelli freddi, padri incapaci, mariti distanti. Alcuni sono personaggi cinici e scostanti (Andreotti, Jep Gambardella), altri più vulnerabili (Cheyenne e Fred), ma nessuno di loro riesce ad evitare uno stato di evidente solitudine. C'è chi ci sguazza e chi ne soffre, chi preferisce vivere in hotel (come ne Le conseguenze dell'amore), chi sente l'eco dei propri passi nelle stanze del potere (Il Divo), chi si muove come piccolo punto nero in uno spazio infinito (This Must Be the Place) e chi, anche frastornato da tanta compagnia, si è stancato dei suoi simili e non vede l'ora di far fallire le feste.
2. Le conseguenze della notorietà
Calciatori, politici, rockstar, grandi compositori. Il panorama umano di Sorrentino è disseminato di stelle, o meglio, buchi neri, implosi nei loro errori e nei loro rimpianti. L'autore riprende la china discendente di vite e carriere note, ci tiene a sottolineare il lato oscuro del successo e della visibilità; un peso sotto il quale si rimane schiacciati pur mostrando al mondo il proprio lato più vincente o invulnerabile. Il regista esplora il "dietro le quinte" di questi uomini esposti, passa dalle emicranie piene di sensi di colpa di Andreotti ai flussi di coscienza di un ex scrittore che vive di rendita, galleggiando nell'alta borghesia romana. Il successo altera l'esistenza del cantante napoletano Tony (L'uomo in più) e poi isola una vecchia icona degli anni Ottanta dall'animo infantile (This must be the place), così come un anziano direttore d'orchestra in cerca di redenzione. Una notorietà per la quale si paga dazio, una condizione esistenziale che è forse tra le cause primarie del loro inevitabile isolamento.
3. Il senso dei luoghi
Nel cinema di Sorrentino i luoghi sono importanti, a volte fondamentali. In Youth l'albergo torna a diventare un crocevia di esistenze, un luogo che ospita anziani alle prese con i loro rimorsi e giovani intenti a sognare con le proprie aspirazioni. Il prestigioso hotel svizzero, isolato e fuori dal mondo, è il contesto ideale per dare sfogo ad un viavai di corpi e anime che si incontrano e sfiorano, innescando una fitta rete di relazioni impossibili altrove. Ne Le conseguenze dell'amore l'hotel torna al centro della storia, questa volta come abitazione di un cinico bancario. Una residenza di nuovo isolata che sottolinea lo stile di vita impersonale e anonimo del protagonista. In This must be the place (un titolo che di per sé esalta il valore dello spazio) l'enorme villa della star è una dimora asettica e vuota che quasi si rispecchia dentro le strade desolate di un'America quanto mai silenziosa. E poi Roma, città assolutamente centrale per l'autore, viene prima spiata di notte attraverso gli occhi di Giulio Andreotti per diventare in seguito vera e propria co-protagonista de La grande bellezza. Un città talmente potente da riuscire ad uccidere con le sue viste mozzafiato e una grandiosità monumentale che non si riconosce nella pochezza morale dei suoi abitanti.
4. Il valore dei passi
C'è una frase di Jep Gambardella che riesce a dirci molto del cinema di Sorrentino: "I nostri trenini sono i più belli di Roma, perché non vanno da nessuna parte". Una battuta sarcastica dal retrogusto amaro, una dichiarazione quasi autoreferenziale che sottolinea una predilezione per storie che non puntano necessariamente ad una meta, non hanno bisogno di delineare un percorso stabilito per i loro personaggi. I film del regista napoletano sono riflessioni circolari che puntano a ragionamenti ellittici, tutti spunti che nascono dalle numerose passeggiate dei suoi protagonisti. In Youth i due vecchi amici camminano e ragionano sul senso della loro vita; stessa abitudine di Andreotti che ne Il Divo passeggiava, imperturbabile, per una Roma notturna a riflettere sul suo ruolo politico e di Cheyenne che nel suo viaggio on the road si aggirava, impaurito e curioso, nella vastità statunitense. Il cammino romano è un motivo di grande ispirazione anche per Gambardella, l'ennesimo arguto osservatore deambulante del cinema di Sorrentino.
5. L'arte dell'egoismo
La maestosa bellezza artistica di Roma conserva una carrellata di immagini e forme irripetibili. Il passato ha creato la vera arte, autentica e sincera, mentre il mondo contemporaneo può solo limitarsi a goffi tentativi di imitazione. La tesi di Paolo Sorrentino sembra essere questa. Facendo coincidere il suo parere con quello del critico de La grande bellezza, il regista esprime una profonda critica all'attuale stato dell'arte, ormai in mano a presunti sprezzanti intellettuali che si servono di pittura, teatro, cinema e letteratura solo per sublimare le proprie frustrazioni. L'atto creativo si riduce quindi a semplice bisogno personale, utile a vincere la paura di scomparire. Un concetto urlato ne La grande bellezza che ritorna con prepotenza anche nel Mick Boyle di Youth, un regista ossessionato dal desiderio di scrivere il suo testamento artistico. Comporre musica o girare film sembrano solo strumenti utili a lasciare al mondo un segno tangibile del nostro passaggio, a dire che siamo esistiti. Nel panorama artistico di Sorrentino, ognuno è a suo modo un egocentrico egoista che vuole soltanto essere ricordato.
6. Cinema degno di nota
Il Premio Oscar in mano e quattro nomi da ringraziare: Fellini, Maradona, Scorsese e i Talking Heads. La storia del cinema, un'icona del calcio e un grande gruppo del rock statunitense. Per Sorrentino la musica è un elemento assolutamente centrale, utilizzato sia come colonna sonora audace in tante celebri scene che come tema cardine del racconto, passando dal cantante melodico visto in L'uomo in più al rock malinconico di This must be the place, sino alle canzoni semplici che sostengono le immagini di Youth. La sua filmografia è un concerto di note opposte, a volte cadenzata da tonalità ovattate, tra il lirico e il sacro (come ne La grande bellezza), altre caratterizzata da suoni in netto contrasto con le immagini (pensiamo ai titoli di testa de Il Divo, dal dinamismo pop). Senza dimenticare la riproposizione di grandi tormentoni popolari degli anni Settanta, rispolverati e poi resi di nuovo efficaci (A far l'amore comincia tu). Grazie a questa passione per un suono ibrido, nello stesso film possono convivere tracce commerciali assai note (You got the love) e pezzi inediti come la Simple Song #3 composta da David Lang per il soprano Sumi Jo.
7. Inquadrature simmetriche
Esteta ed amante del dettaglio visivo, Sorrentino concepisce il cinema prima di tutto come spettacolo gratificante per gli occhi e non a caso molti dei suoi film portano nel titolo dei richiami all'esteriorità. Le ultime produzioni in particolare sembrano opere che di colpo vengono interrotte da una mostra di quadri, come fossimo davanti a carrellate statiche (ed estatiche) su composizioni visive perfettamente equilibrate, ordinate e sinuose. La sua è un passione conclamata per l'inquadratura simmetrica (in questo è simile a Wes Anderson) dove la figura umana è perfettamente al centro della ripresa. In Youth questa tecnica, percepita a seconda dei gusti come cifra stilistica o semplice vezzo, è accentuata anche da un grande utilizzo del rallenty che amplifica l'impatto suggestivo della gestualità messa in scena.
8. Società decadente
La classe dirigente è corrotta, gli intellettuali sono disimpegnati, le persone "importanti" sono apatiche e al limite dell'inettitudine. La visione sorrentiniana dell'individuo spinge quasi alla sociopatia, considerando la pochezza morale che il regista continua a sbatterci in faccia. La grande bellezza è senza dubbio il manifesto di una percezione cinica e disincantata dell'alta borghesia italiana, rappresentata come miserabile e decadente. Il contesto umano descritto pullula di maschere al botulino, di giovani senza punti di riferimento, di anziani incapaci di sostenere con consapevolezza e maturità il passaggio del tempo. Una fotografia sicuramente disturbante e a tratti grottesca, che affascina e allo stesso tempo respinge.
9. Momenti stranianti
Per questa malattia collettiva, imperante e difficile da estirpare, esiste anche una specie di cura, una soluzione che non ha una formula ben precisa perché si manifesta all'improvviso, in modi e tempi imprevedibili, sotto forma di epifania. Per Sorrentino questo pessimismo può essere sconfitto attraverso il senso della meraviglia, la forza del sorprendente e lo stupore della bellezza delle piccole cose. Sprazzi di vita che il cinema riesce a raccontare meglio di qualsiasi altra cosa. Così, tanti suoi film sono disseminati di momenti stranianti (apparizioni, visioni) in cui lo spettatore viene preso alla sprovvista, proprio come i personaggi che affrontano questi attimi rivelatori. Spesso si tratta di animali, come il gatto che osa mettersi sulla strada di Andreotti (ed è l'unico capace di smuoverlo), come il bufalo di This must be the place o la giraffa e i fenicotteri visti ne La grande bellezza. Tutte piccole scosse che destabilizzano ma servono anche a ispirare nel pubblico il piacere di estraniarsi attraverso il grande schermo, elevarsi anche solo per un attimo come fa il monaco tibetano visto in Youth.
10. Il peso delle parole
Oltre le immagini e al di là del suono, le parole sono un altro elemento focale del cinema di Sorrentino. Anche qui il suo stile è ben definito da dialoghi poco spontanei, che spingono molti detrattori ad accusarlo di una certa, compiaciuta, artificiosità nella scrittura. Eppure è indubbio che, proprio grazie a questa tecnica, tante delle battute pronunciate nei suoi film rimangano impresse nella mente dello spettatore, fungendo da morale definitiva per le sue storie così impregnate di contenuti. Spesso sono flussi di coscienza, pensieri privati, confessioni intime. Ma davanti a tutte queste parole di chi scrive e alle tante critiche, forse, lo stesso Sorrentino risponderebbe, con quell'innegabile atteggiamento scostante che lo caratterizza. Perché alla fine "è tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L'emozione e la paura. Bla. Bla. Bla. Bla. Altrove, c'è l'altrove". Altrove, dove tutti andiamo entrando in sala.