I cocci dell'amore
L'amore tende ad accumulare nel rapporto quotidiano, negli spazi angusti delle cose taciute, le minime incomprensioni, l'insofferenza, l'impossibilità di accettare l'altro sul serio, per quello che è in realtà. Il tempo poi logora gli argini del sentimento e lascia passare solo l'oscenità degli errori, che sommerge irrispettoso quanto di importante si è costruito, appendendo piombo alle rose e ai baci di un percorso insieme, che finiscono sul fondo, destinati ad essere dimenticati in fretta. Quando Anna e Mara si offrono allo spettatore sono già vittime di una routine che non può essere contestata, la loro relazione ha già esaurito l'incanto del conoscersi, dello scoprirsi poco a poco fino a rivelarsi completamente. Ciò che dovrebbe essere di loro scompare dietro le esplosioni incontrollate o negli angoli remoti di uno sguardo sempre volto da un'altra parte. Le due amanti si ostinano a soffiarsi in viso l'amore, senza riconoscere la realtà dei fatti: tutto è andato perso da qualche parte, qualche passo indietro, nelle distanze che non sono state colmate e hanno finito con l'incattivire o col rendere pallidamente generosi. Di un rapporto che sta morendo, trafitto dalle mille ingiustizie del mondo fuori, resta solo il gusto di ferirsi, di toccarsi unicamente per farsi male, e camminando sui cocci del sogno infranto si realizza quanto il fallimento di un amore sia sempre una colpa da dividere in due.
Il piccolo film di Marco Simon Puccioni riflette sull'agonia di un rapporto al capolinea, provando a districarsi tra le dinamiche squilibrate che lo regolano e i meccanismi perversi della società che ruota attorno ad esso. Tra le due donne, diversamente abili di amare, si aprono spazi vuoti dove si intrufolano tensioni destinate ad esplodere. Basterebbero anche solo i rapporti di potere che si instaurano tra le due: una dirige, gestisce, controlla ogni cosa; l'altra fa l'operaia nella fabbrica di lei e tace la sua soggezione perché vinta da quel sentimento che le ha unite. D'improvviso però tra di loro sbuca l'elemento imprevisto, un giovane extracomunitario che in loro ha trovato un riparo dal dramma della miseria, che fatica a comprendere i nuovi orizzonti del contraddittorio Occidente (che si adagia sulla ricchezza di pochi, quando chi lavora senza prestigio si trova sempre in balia della precarietà) ma l'insegue, vuol farlo proprio, commettendo il grave errore di provare a declinarlo secondo i propri principi. Introdotto in una famiglia che comincia a perdere stabilità sotto i propri piedi, il ragazzo finisce col togliere il velo dalla consapevolezza, dalla presa di coscienza che il tessuto di raso sul quale si è scritta la propria storia si è ormai irrimediabilmente squarciato.
Nel suo essere un continuo inseguimento di opposti che provano a convivere, ma senza riuscire mai a trovare il giusto equilibrio, Riparo - Anis tra di noi s'affanna nel voler dar conto di troppe situazioni nel panorama asettico del Nord-Est. Puccioni d'altronde è chiaro fin dalle sue scelte estetiche: dai colori caldi, saturi, di Tunisi si passa al grigio di una striscia d'Italia che sembra vivere solo negli spazi delle fabbriche, determinando così un diverso approccio in ogni singolo aspetto della vita, che distingue la spontaneità dalla meccanicità. Estremamente affascinante è il lavoro sul territorio, lo sguardo paziente che il regista si concede sull'immobilità di questa provincia di Udine che ha la sua maggiore attrattiva in una gigantesca sedia di legno (simbolo della città di Manzano che fabbrica sedie per tutta Italia) posta al centro di una rotonda.
L'ingenuità del voler farsi portavoce di troppi malesseri costa cara al film, che troppo spesso si perde in microstorie che distolgono dal suo cuore, da quel rapporto che sta malinconicamente affondando ed è lì pronto, per l'ultima volta, a riempirsi i polmoni d'aria prima di lasciarsi vincere dall'oscurità delle onde. Incisiva la spigolosità fisica delle due protagoniste, ma Maria De Medeiros, pur essendo brava al solito, non restituisce a dovere l'immagine reale delle donne vincenti del Friuli, così come Antonia Liskova ha qualche titubanza di troppo nel dosare gli isterismi del suo personaggio. Dietro gli eccessi quieti del film si distingue comunque una sincerità apprezzabile, il tentativo di riconoscere alla diversità una condizione più normale e banale di quel che si crede. Alla fine ci si smarrisce in quest'amarezza che lascia dentro la conclusione di un amore che non ha saputo proteggersi dalla mediocrità che il mondo vomita fuori ogni giorno, finendo col piegarsi alla volgarità del tradimento, delle parole dalla lama affilata che s'illuminano quando affondano nella gola di chi deve essere annientato.