Homo homini lupus
Il cinema in costume cinese - sia che tratti di rievocazioni storiche dell'epoca imperiale, sia che si dedichi a narrazioni fantastiche con protagonisti spadaccini dai poteri straordinari - ha subito nell'ultima decina d'anni una repentina fase di sviluppo, resa possibile grazie alla nascita di cospicue coproduzioni pan-asiatiche e soprattutto all'investimento dell'industria statale cinese. A partire da La tigre e il dragone di Ang Lee nel 2000, questo tipo di produzioni si è sempre più affermato nel corso degli anni, quasi divenendo una sorta di alternativa asiatica ai kolossal epici hollywoodiani. Stupisce, però, che la gran parte di tali opere realizzate fino adesso siano di solito affidate alla direzione di grandi autori cinesi, che però non si erano mai cimentati prima con le produzioni di genere e d'azione. È stato dapprincipio il caso di Zhang Yimou, poi di Chen Kaige e adesso è il turno di un altro dei maestri della cosiddetta Quinta generazione di cineasti cinesi: Tian Zhuangzhuang, autore di opere apprezzate in ambito festivaliero come The Blue Kite e Springtime in a Small Town, e presente anche alla prima edizione del Festival del cinema di Roma con The Go Master.
Ciascuno di questi grandi autori ha tentato di introdurre la propria poetica personale all'interno del contesto storico o fantastico, dando vita a opere non inquadrabili negli stretti confini del genere cavalleresco: Zhang Yimou si è dedicato sostanzialmente alla messa in scena di sontuosi melodrammi, mentre Chen Kaige con The Promise si è profuso in un esercizio barocco. Anche Tian Zhuangzhuang in questo suo The Warrior and The Wolf pare non curarsi per nulla delle convenzioni del cinema d'azione o di questioni quali il rispetto per una linea narrativa. Egli si concentra piuttosto nel mettere in scena libere associazioni di immagini dal valore allegorico, con lo scopo di sottolineare l'istinto ferino e animalesco che anima nel profondo la natura umana. L'intreccio narrativo, tratto da un racconto dello scrittore giapponese Yasushi Inoue, si sviluppa in maniera incoerente e criptica. Tra suddivisioni in parti frammentate, frequenti innesti di flashback e di digressioni, non è difficile perdersi tra i meandri di questa storia, che narra dell'esercito del Generale Zhang, inviato dall'imperatore a combattere contro le tribù nomadi dell'estremo occidentale del continente. Durante la spedizione, Zhang incontra il pastore eremita Lu (interpretato dalla star nipponica Joe Odajiri), che ha rifiutato il contatto con i suoi simili e vive in compagnia di un cucciolo di lupo. Zhang crede che Lu possa diventare un valoroso guerriero e lo recluta nell'esercito contro la sua volontà. I soldati, però, si imbattono nella tribù degli Harrans, su cui grava una maledizione: pare che vivano nascosti di giorno e si tramutino in un branco di lupi al calar della notte. Lu sarà colto da una passione selvaggia e animalesca nei confronti di un'abitante della tribù (impersonata dalla diva Maggie Q). Sequenze di focosi atti sessuali si alternano ad altrettanto furiose scene di combattimento, queste ultime riprese in maniera anti-spettacolare attraverso l'uso di campi ravvicinati e della macchina a mano. Su tutto grava un'atmosfera plumbea, quasi infernale, esaltata da una fotografia in cui dominano le sfumature di grigio e di marrone, alternate al rosso del sangue e al bianco delle coltri innevate. Chi cerca uno spettacolare wuxiapian, o un film di scontri epici e guerreschi, si rivolga altrove. The Warrior and The Wolf è piuttosto uno sproloquio autoriale eccessivamente ermetico e metaforico.