Religione, visioni, ciarlatani e intrighi, questi sono i temi attorno a cui ruota Hand of God, la serie prodotta da Amazon uscita in queste settimane. Il punto forte, comune a tutta la prima stagione, è senza dubbio la presenza di Ron Perlman nei panni del giudice Pernell Harris, un uomo potentissimo che, sconvolto dal dolore di vedere il figlio in coma, il ragazzo ha tentato il suicidio dopo aver assistito allo stupro della moglie, riceve segni divini che sembrano guidarlo nella ricerca dei colpevoli. L'episodio pilota promette subito molto bene, i colpi di scena sono al posto giusto, le prove attoriali sono mediamente buone, seppure sempre sovrastate dall'interpretazione di Perlman, e la trama sembra incanalarsi verso un grande complotto che promette di tenerci incollati allo schermo per tutti e dieci gli episodi.
Poco dopo però la struttura narrativa inizia a scricchiolare sotto il suo stesso peso e la serie crolla clamorosamente nel finale, vittima di alcuni difetti che ne azzoppano le ottime premesse. La vera e forse unica domanda di Hand of God infatti è se Pernell sia veramente in grado di ricevere messaggi divini o se invece lo shock lo abbia trasformato in un pazzo fanatico. Fin dalle prime scene siamo portati a pensare che il giudice comunichi davvero con Dio dato che le sue visioni gli permettono di conoscere cose che altrimenti avrebbe totalmente ignorato. Ma poi proprio questo eventuale risvolto sembra mettere in ginocchio gli autori. Se infatti l'espediente dei segni genera curiosità, dall'altro è molto complesso da gestire perché tira in ballo una serie di tematiche molto profonde come la fede, la differenza tra vecchio e nuovo testamento, la redenzione, la vendetta divina, materie che vanno affrontate con cura anziché essere abbozzate malamente solo per tirare avanti con la storia.
Occasioni perse
Ci sono momenti in cui Hand of God fa intravedere il suo grande potenziale. Gli spunti per essere una serie decisamente migliore del resto c'erano tutti, avrebbe potuto sondare temi come la religione negli Stati Uniti, i difficili dilemmi che accompagnano una conversione, il fondamentalismo cristiano, il dramma di vivere con una persona in coma e l'etica dell'eutanasia. E invece è solo fiato sprecato, la storia è un susseguirsi di scampoli, riferimenti, idee buttate qua e là per compiacere quella parte di pubblico che adora sentirsi colta e vagamente stuzzicata quando guarda una serie TV. Lo show non sembra infatti particolarmente interessato a farci comprendere le motivazioni che hanno condotto Pernell sulla via della fede, allontanandolo pian piano da una vita di corruzione e tradimenti, per fargli vestire i panni del moderno Salomone. La storia anzi si ripete come se gli eventi corressero sempre sugli stessi binari, del giudice non c'è quasi più traccia, Dio gli dice di fare una cosa e lui la fa, come se fosse un buon soldato o uno dei tanti profeti della Bibbia. Ancora più assurdo è il fatto che tutti i personaggi comprimari ignorano o tollerano fin troppo le stramberie di un uomo che viene ritrovato nudo a pregare in una fontana, spesso vede e sente cose che non esistono, agisce con violenza e si fa ritrovare sporco di terra in un furgone circondato da Arbre Magique che dovrebbero nascondere la puzza di un cadavere.
Finti scandali e comparse
Ma parliamo un attimo delle provocazioni perché anche Hand of God non rinuncia a qualche scena "scandalosa", seguendo quella legge non scritta di Hollywood secondo cui non stai raccontando la vita vera di qualcuno se non mostri gente che tradisce, parla di sesso in modo esplicito o compie qualche azionie particolarmente violenta o assurda. Ecco quindi che il buon Pernell frequenta una escort di lusso, che il prete belloccio si porta a letto la formosa sacrestana e sblocca i fondi necessari facendola inginocchiare di fronte al burocrate di turno, che la donna stuprata davanti al marito mentre lui è ancora in coma quasi certamente finirà per baciare il suo migliore amico, che la moglie del giudice, pur essendo disposta a tutto pur di godere dei benefici legati alla carriera del marito, non rinuncia alle cannette al parco con le mie amiche. Insomma in ogni episodio è presente almeno un momento che dovrebbe scuotere le nostre coscienze perbeniste, ma la verità è che ci troviamo di fronte al classico conformismo scandalistico, prevedibile e anche un po' noioso, che nelle intenzioni vorrebbe rendere i personaggi più veri e sfaccettati, ma che finisce invece per impoverirli e intrappolarli in un vaso di clichè. D'altronde nessuno in questa serie TV sembra avere una vita propria particolarmente interessante e gli unici sprazzi di originalità e significato sono solo quelli in cui il suo cammino si incrocia col personaggio interpretato da Perlman, salvo poi tornare nello sgabuzzino. L'unico che un po' si salva da questo piattume è il personaggio di K.D. interpretato da Garret Dillahunt, un ex detenuto che ha scoperto la religione dietro le sbarre e che Pernell trasformerà nel suo braccio destro assegnandogli il lavoro sporco e gli incarichi più violenti. Non è chiaro tuttavia se la credibilità di questa relazione sia da imputare all'ottima scrittura dei dialoghi oppure al fatto che i ruoli siano stati assegnati ai due migliori attori della serie.
Dio non gioca a dadi
Un altro pesante difetto della serie è lo sbilanciamento tra i temi divini e le ragioni terrene che muovono la storia. Tutto ruota infatti attorno a due questioni: Pernell deve usare la sua influenza per la costruzione di un centro commerciale che raderà al suolo un intero quartiere popolare e il mistero del libro sparito durante lo stupro all'interno del quale si nasconderebbe una chiavetta USB in cui il giovane in coma avrebbe memorizzato un software particolarmente interessante. Il risultato è l'equivalente di utilizzare Superman per salvare i gattini sugli alberi. Più la serie va avanti più questa dissonanza inizia a farsi sentire, la cospirazione diventa sempre più intricata e difficile da seguire, le domande cominciano ad affollare la testa dello spettatore, mentre sullo schermo tutto sembra seguire uno schema già visto che si sviluppa con estrema lentezza. In fondo perché Dio dovrebbe affidare i propri messaggi a strani indovinelli? Perché tutti continuano a dare retta a Pernell e non riescono a inchiodarlo neanche di fronte all'evidenza dei terribili atti che ha commesso? Come può un giudice a conoscenza delle procedure di polizia compiere errori insulsi e da principiante durante i suoi crimini? Il sospetto è che purtroppo tutte queste domande non avranno risposta nell'eventuale seconda stagione, ma anzi si sommeranno ad altri dubbi ancora più grandi. Hand of God ha il sapore delle occasioni perse, è una serie TV in cui le prove recitative di un paio di elementi non riescono a nascondere i pesanti difetti strutturali, un prodotto che troppo spesso sembra intuire quale è la strada giusta per migliorare, ma decide puntualmente di ignorarla.
Movieplayer.it
2.5/5