Gordon ritrova Lovecraft
In questo episodio dei Masters Of Horror, il secondo della serie, Stuart Gordon si cimenta nella trasposizione cinematografica, in chiave contemporanea, di uno dei racconti più popolari di H. P. Lovecraft, La Casa delle Streghe del 1932. Per il regista americano è un ritorno quello ai temi lovecraftiani, da lui amatissimi e già ripresi in pellicole come Re-Animator e Dagon. Un ritorno che per i fan non può che essere sinonimo di qualità se al nome di Gordon si affianca quello di Dennis Paoli come adattatore dell'opera, e quello di Ezra Godden (protagonista anche in Dagon) tra gli interpreti e qui nei panni del giovane Walter Gilman: uno squattrinato studente di fisica che affitta una stanza a buon mercato dove dedicarsi alla sua tesi sulle dimensioni parallele e le loro linee di intersezione. Fortuna vuole che nella particolare architettura della sudicia ed lugubre topaia si celi proprio uno di questi varchi, un oscuro portale che si apre su un incubo popolato da una strega assetata di sangue, che vuole usare Gilman per il sacrificio di bambino. Ma le apparizioni della diabolica donna coincidono sempre col sonno dello studente e le loro dinamiche appaiono facilmente spiegabili dagli incontri (con grossi ratti o vicini di casa dall'aspetto e le usanze inquietanti) che il giovane fa durante il giorno. E mentre l'incubo diventa sempre più reale, il breve film si appresta a concludersi nel più drammatico - e non troppo inaspettato - dei modi.
Non poteva certo mancare la messa in scena di una casa stregata in questo polittico di racconti dell'orrore. Peccato che le buone premesse di questo episodio vengano spesso facilmente a dissolversi nei circa cinquanta minuti di durata del film.
"Se fossero stati i sogni a causare la febbre, o la febbre i sogni, Walter Gilman non avrebbe saputo dirlo". Questo è il suggestivo inizio dello scritto di Lovecraft, in cui incubo e realtà sembrano continuamente inseguirsi e sovrapporsi. Ma nel film di Gordon non c'è la febbre, e il delirio surreale in cui piomba il protagonista viene accennato solo nel finale quando ormai la dimensione onirica ed oscura del racconto non ha più lo stesso sapore. Certo si sa, cinema e letteratura sono due forme di scrittura ben diverse, il che rende quantomai inutile un diretto confronto tra le due. Ma è difficile non scontrarsi con le differenze tra il testo dello scrittore di Providence e le particolari caratteristiche della sua trasposizione cinematografica; al potere evocativo della narrativa, Gordon contrappone un film low-budget dalle dinamiche e l'estetica di un perfetto b-movie che fa sorridere più che spaventare. Tra una citazione di kubrickiana memoria, giochi di luci violacee che anticipano l'emergere dell'incubo e una ben calibrata messa in scena, Gordon costruisce un'opera dall'aria grottescamente amatoriale, anche se dalle buone intuizioni registiche. Un film, proprio per questo, tutto sommato godibile, e che certo non mancherà di suscitare simpatia nello spettatore, ma altrettanto evidentemente, un prodotto dalla qualità discontinua, ben lontano dalla raffinatezza di altri episodi della serie.