Gli anni di piombo secondo Assayas

Supportato da una fotografia efficace, sbiadita e polverosa alla maniera delle immagini di repertorio degli anni '70, Carlos è un lavoro asciutto, realistico, che elegge a proprio modello il miglior cinema documentario.

Dopo aver scandagliato in profondità i drammi personali e familiari di individui anonimi, con qualche puntata nell'universo del metacinema, Olivier Assayas cambia completamente rotta con un progetto delicato e complesso. Il mastodontico biopic dedicato a Carlos, nome di battaglia del celebre terrorista venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, si pone un obiettivo ambizioso: illustrare i meccanismi della geopolitica degli anni '70. Per far luce sulla stagione che ha insanguinato l'Europa e che, nelle intenzioni dei soggetti coinvolti, costituiva il preludio a una nuova rivoluzione, Assayas si concentra su uno dei rappresentanti più carismatici della lotta armata. Il suo Carlos rappresenta l'anello di congiunzione tra un combattente e una rockstar. Quando, in apertura di film, lo vediamo scendere dalla scaletta di un aereo, Rayban, basetta lunga e pantaloni a zampa d'elefante, non possiamo non notare la somiglianza col Val Kilmer dei tempi di The Doors. Il suo interprete, il venezuelano Edgar Ramirez, ha carisma da vendere e la sua fisicità viene sfruttata al massimo nel tentativo di fornire un ritratto il più possibile veritiero del leggendario combattente. Carlos è frutto di lunghe ricerche storiche prodotte e verificate da Olivier Assayas insieme a Stephen Smith e al co-sceneggiatore Dan Franck. Ciononostante vi sono importanti periodi privi di documentazione che hanno costretto gli sceneggiatori a colmare i buchi temporali con una fiction verosimile e accurata.

Come il Vallanzasca di Michele Placido e il Mesrine di Jean-François Richet, Carlos appartiene a quella schiera di criminali belli, eleganti, popolari, corteggiati dalle donne, la cui lontananza dal modello lombrosiano li pone a rischio mitizzazione. In aggiunta a ciò il fascino di Carlos è determinato dal suo essere spinto da motivazioni idealistiche, dalla lucida capacità di interpretazione della realtà e dallo spirito di sacrificio che, soprattutto nella prima fase, anima la sua lotta e che, col passare degli anni, verrà sostituito da una sorta di perverso culto della personalità che porterà Carlos alla rovina. Olivier Assayas dimostra grande equilibrio nella rappresentazione del personaggio, rifuggendo dall'iconografia del bandito romantico così come dalla sua demonizzazione. Carlos è il prodotto della sua epoca, è un rivoluzionario che prende in ostaggio una manciata di ministri del petrolio per realizzare una storica impresa terroristica indossando un basco alla maniera del Che, ma quando termina la Guerra Fredda e lo spazio d'azione si riduce improvvisamente si ricicla come mercenario offrendo i propri servigi al miglior offerente nell'illusione di proseguire una guerraa ormai anacronistica. La rappresentazione complessa e controversa del personaggio permette di scardinare la realtà politica dell'epoca svelando interessi economici, complotti e mandanti alla base della lotta anticapitalista.
Supportato da una fotografia efficace, sbiadita e polverosa alla maniera delle immagini di repertorio degli anni '70, Carlos è un lavoro asciutto, realistico, che elegge a proprio modello il miglior cinema documentario. La densità e la lucidità dei dialoghi che, in poche secche battute, aprono gli occhi su un quadro sociopolitico di grande complessità, allontanano ogni rischio di stereotipo. L'azione calata nelle location reali, il cast internazionale utilizzato al meglio, l'utilizzo intelligente delle musiche e l'incisività della regia donano al racconto immediatezza e verità immergendo il pubblico nel cuore dell'azione. Intensa e feroce la ricostruzione dell'assalto all'Opec e del rapimento dei ministri del petrolio, sequenza mozzafiato che rappresenta il cuore del racconto, ma basta un nudo frontale in apertura di film per raccontarci sul personaggio più di quanto farebbero migliaia di parole.