Questa non è una recensione cinematografica. Non potrebbe esserlo, perché Game Therapy non è un film. Potreste chiedervi "Perché è in sala, allora?" E lo capiremmo. Ce lo siamo chiesto e ce lo chiediamo anche noi. Questo articolo è la risposta che abbiamo cercato di dare, a voi e, prima di tutto, a noi. Per analizzare, per capire. Perché capiteranno ancora fenomeni del genere e un senso lo dobbiamo dare. Un senso che l'arrivo di Netflix, casualmente nella stessa giornata dell'uscita del film con Favij e Clapis, ci aiuta a trovare.
Compagni di giochi
Ma facciamo un passo indietro, perché prima di tutto dobbiamo spiegarvi cos'è Game Therapy. Si tratta di una coproduzione Italia/USA che porta sullo schermo alcuni popolari youtubers, costruendo attorno a loro una storia di più ampio respiro, che possa venire incontro ai gusti e temi cari al loro abituale pubblico della rete. Una storia che ruota attorno a Francesco (Lorenzo Ostuni, in arte Favij), un adolescente che preferisce il rifugio sicuro dei videogiochi all'imprevedibilità e noia della vita reale, la Real Life come lui la definisce in contrapposizione alla ben più stimolante Game Life. Francesco ha un importante alleato in Giovanni (Federico Clapis), più grande di lui, pluribocciato ed ancora alle superiori alla ricerca del suo percorso nella vita. I genitori di entrambi sono preoccupati dell'atteggiamento dei due ragazzi e consultano uno specialista dopo l'altro per capire come spingerli fuori all'oblio videoludico in cui si immergono costantemente. Una soluzione che non migliora quando Francesco riesce trovare un easter egg in un rivoluzionario gioco che permette ai due ragazzi di vivere un'esperienza di gioco mai provata prima... da cui è difficile staccarsi. Una storia, dicevamo, costruita su misura per degli youtubers come Favij, Clapis, Decarli e Zoda che sono diventati popolari sul web proprio con i loro video di gameplay, con attinenza al settore dei videogiochi e in generale affini ad un pubblico giovane che sulla rete vive. Un pubblico che li segue come delle rockstar, a giudicare anche dall'accoglienza riservata loro alla Festa del Cinema di Roma 2015.
C'era una volta su Youtube
Un'attenzione che giustifica il salto verso il grande schermo? Ovvio che per chi decide di produrre un progetto del genere questo seguito è importante, è quello che giustifica un investimento (anche relativamente corposo per quella che in definitiva non si differenzia molto da una ambiziosa webseries), con la naturale speranza di un incasso interessante e un guadagno. Imprenditorialmente, quindi, sì, lo giustifica. Discorso diverso dal punto di vista artistico, perché è palese che i ragazzi protagonisti non siano attori, che recitare e saper stare davanti a una videocamera sono due cose diverse. E recitare non è nelle corde di almeno un paio di loro, a giudicare da quanto visto in questo profetto. Non siamo, per capirci, dalle parti di Willwoosh/Guglielmo Scilla, che ha esordito in produzioni cinematografiche in qualità di vero e proprio attore, ma di alcuni ragazzi più o meno giovani che sono chiamati a fare quello che sono realmente, ma in un film. Non vogliamo, però, essere snob e bistrattare Game Therapy per principio, perché videogiocatori lo siamo anche noi e ci sarebbe piaciuto che lo spunto alla base del film fosse sviluppato meglio rendendo giustizia al mondo a cui si accompagna. Ma se ci viene presentato come film, se arriva in sala (in circa trecento sale, tra l'altro), non possiamo non notare la banalità dello script e della sua costruzione, la qualità dei costumi che sfigura al confronto di alcuni cosplayer visti in giro per fiere specializzate, la recitazione insufficiente, il livello medio che si attesta su quello da webseries non particolarmente ispirata. Perché questa è la sensazione che dà Game Therapy, che cerca anche di lanciare un messaggio di equilibrio nella gestione della propria passione per i videogiochi (per poi, in qualche modo, contraddirlo nel finale), di un prodotto confezionato per il web e Youtube, da cui i suoi protagonisti arrivano.
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Oltre lo schermo
Recensire un film del genere è però un gioco, perdonateci il termine, fine a sé stesso e la stessa domanda d'apertura sull'opportunità di portarlo in sala perde di significato nel contesto attuale, che vede approdare nei cinema eventi di ogni tipo, da spettacoli teatrali a concerti di ogni genere (OK il concerto evento, quando lo è, ma possiamo considerare tale un live di Lorenzo Fragola? Senza in alcun modo giudicare la qualità dell'artista di per sé), mentre siamo abituati ad usufruire di film con ogni mezzo a nostra disposizione. La riflessione non può più essere legata all'approdo su grande schermo di ogni tipo di produzione, ma sulla varietà di schermi diversi su cui oggi possiamo guardare i nostri contenuti, sullo spostamento di attenzione sempre maggiore sul prodotto e non sul mezzo: nello stesso giorno in cui chi scrive guardava Game Therapy in una sala di buon livello della Festa di Roma, su Facebook in tanti condividevano le prime esperienze con la neonata Netflix italiana, guardando grandi film del passato e ottime produzioni del presente su tablet e telefoni nelle condizioni più disparate, dal letto alla metro. Il cinema come luogo sacro, come tempio ormai vuoto, perde di importanza, quello che conta è cosa si sceglie di guardare, a dispetto del come lo si fa. Il grande schermo non dà a Game Therapy una dignità che non ha, lo schermo di uno smartphone non la toglie a un classico del cinema.