Far East Film: drammi, alieni e risate in attesa della chiusura

Il festival dedicato al cinema asiatico si avvia alla sua conclusione, con due giornate che hanno mostrato al pubblico alcuni dei suoi titoli più attesi, uniti a qualche notevole sorpresa.

The Last Reel: Ma Rynet in una scena del film
The Last Reel: Ma Rynet in una scena del film

Ci si avvia lentamente alla conclusione, sul palcoscenico del Teatro Nuovo di Udine, per questa diciassettesima, ricca edizione del Far East Film Festival. I due giorni immediatamente precedenti alla chiusura hanno visto il Giappone protagonista, con l'atteso dittico fantascientifico dei due Parasyte (diretti da una vecchia conoscenza del pubblico del Far East, come Takashi Yamazaki), la commedia pop-apocalittica di The End of the World and the Cat's Disappearance, ma soprattutto il sorprendente, toccante road movie 0,5 mm, per chi scrive, finora, il miglior film visto a Udine quest'anno.

Per il resto, la proposta di queste due giornate si è suddivisa come sempre tra commedie più o meno riuscite (il cinese 20, Once Again!, remake del film sudcoreano Miss Granny, la black comedy pugilistica 100 Yen Love, di produzione nipponica), due noir esemplificativi dello stato attuale delle rispettive filmografie (il coreano Gangnam Blues e il cantonese Port of Call) e soprattutto un'opera di forte intensità e impegno, cinefilo e politico, come il cambogiano The Last Reel: salutato, quest'ultimo (alla presenza della regista Kulikar Sotho) da quello che è stato forse il più lungo applauso di questa edizione del Far East.

Il Giappone fantascientifico e quello auto-riflessivo

Parasyte: Part 1, Shota Sometani in una scena del film
Parasyte: Part 1, Shota Sometani in una scena del film

Il fronte giapponese, in questi due giorni, è quello che ha visto la maggiore presenza di titoli: tra questi, i più attesi erano probabilmente Parasyte: Part 1 e Parasyte: Part 2, dittico science fiction proiettato nel pomeriggio del 1 maggio, tratto da un manga di Hitoshi Iwaaki e diretto da quel Takashi Yamazaki che già aveva avuto modo di farsi apprezzare, nelle edizioni passate, dal pubblico di Udine (suoi erano Always - Sunset On Third Street, visto al Far East nel 2006, e The Eternal Zero, premio del pubblico nella scorsa edizione). I due prodotti confermano il talento visivo di Yamazaki, e anche la sua capacità di contaminare i generi (la black comedy, l'horror e la science fiction apocalittico/filosofica), ma rivelano anche uno squilibrio abbastanza evidente al loro interno: più compatto, ma anche in fondo più prevedibile, il primo film, più ambizioso ma nettamente più difettoso narrativamente (con trovate tali, pur all'interno dell'impianto fantascientifico, da mettere a dura prova la sospensione dell'incredulità) il secondo. Comunque, complessivamente, una visione che non lascia l'impressione di aver sciupato le quasi quattro ore di durata complessiva.

The End Of The World And The Cat's Disappearance: Nagai Ako e Midorikawa Momoko in una scena del film
The End Of The World And The Cat's Disappearance: Nagai Ako e Midorikawa Momoko in una scena del film

Ugualmente improntato a temi da sci-fi apocalittica, ma dai toni molto più pop, l'ibrido The End Of The World And The Cat's Disappearance, di Michihiro Takeuchi: black comedy curiosa e ibrida, con una studentessa affetta da visioni e col compito di salvare il mondo, due attraenti ragazze provenienti da Giove, una donna-gatto e altre amenità; un film curioso quanto effimero, che di fatto non riesce mai ad andare oltre il gioco autoreferenziale e, in fondo, fine a se stesso.
Decisamente altri toni, e tutt'altro spessore, per 0,5 mm, road movie diretto dalla regista Momoko Andô e proiettato nel pomeriggio del 30 aprile. Raccontando la storia di una badante senza lavoro, che decide di "mettersi in proprio" adescando anziani con metodi, apparentemente, ai limiti dello stalking, il film parte con toni da commedia nera e surreale; ma, nel suo lungo svolgimento (196 minuti, incredibilmente densi e senza cadute di ritmo) rivela gradualmente la sua vera natura, quella di riflessione sul Giappone contemporaneo, sull'atomizzazione della sua società civile, sulla sua carenza di memoria e sulla sua incapacità di fare i conti con la storia recente. Un'opera intensa e per larghi tratti toccante, un ritratto sfaccettato che ha costituito, per chi scrive, la più preziosa visione (finora) di questa edizione del Far East.

Cambogia, Corea del Sud, Hong Kong: storie in nero, drammi privati e collettivi

Un altro titolo atteso, e anche quello che (a giudicare dalla lunghezza dell'applauso tributatogli) si candida seriamente alla vittoria del premio del pubblico, è The Last Reel della regista Kulikar Sotho: un dramma incentrato sul tema della memoria, personale e collettiva, che segna l'esordio della Cambogia sul palcoscenico del festival friulano. Il film della Sotho, ambientato ai giorni nostri, racconta di una ragazza che assiste casualmente, in un cinema, a una pellicola girata prima dell'avvento al potere di Pol Pot, nella quale riconosce il volto di sua madre; ignara del passato di attrice di quest'ultima, la ragazza inizia un doloroso viaggio nella storia, finora taciuta, della sua famiglia; che culmina nella decisione di girare, un quarantennio dopo, il finale di quel vecchio film interpretato da sua madre, perduto o forse mai realizzato. I temi del film fanno pensare inevitabilmente (anche) a L'immagine mancante di Rithy Panh, ma The Last Reel punta maggiormente a fondere passato e presente, rimosso privato e collettivo, puntando il dito contro la violenza inaudita che il regime operò, soprattutto, contro gli affetti e la memoria, anche in uno dei loro strumenti possibili (quello del cinema).

Il fronte coreano, in questi due giorni, ha mostrato invece due opere molto diverse tra loro, sia a livello di mood che di tematiche: il dramma noir Gangnam Blues di Yu Ha, parabola criminale di due amici fraterni ambientata nella Seoul degli anni '70, più efficace per la ricostruzione d'epoca che per la confusa e inconcludente narrazione; e il melò My Brilliant Life, tratto da un bestseller del 2011, che racconta la storia di un ragazzo diciassettenne affetto da una rara malattia genetica, che ne provoca un rapidissimo e inesorabile invecchiamento. Il film di E J-Yong, nel trattare una materia delicata e ad alto rischio retorica, sceglie di farlo nel modo più facile possibile, affidando molto alla recitazione del suo protagonista ma anche cadendo spesso in un registro troppo esplicito, che raramente riesce a suscitare reale emozione.
Una menzione, infine, va fatta anche a Port Of Call, proiettato nella serata del 1 maggio, ultimo film hongkonghese visto in questa edizione del Far East (in attesa della chiusura con The Taking of Tiger Mountain, che è però una coproduzione con la Cina): un thriller/noir diretto da Philip Yung e interpretato dalla star locale Aaron Kwok, ispirato a un reale fatto di cronaca avvenuto nel 2008 (l'efferato omicidio di una ragazza proveniente dalla Cina continentale). Yung, avvalendosi della fotografia dal forte impatto, riconoscibilissima, di Christopher Doyle, dirige un thriller insolitamente asciutto nei toni, tutto basato su uno sguardo che mette a confronto il vissuto (complesso, contraddittorio, insondabile) del giovane killer, e quello del detective interpretato da Kwok, sempre più coinvolto dal caso, sconcertato e in cerca di risposte (forse) impossibili da ottenere.