Fabio e Damiano D'Innocenzo si sono fatti conoscere con la periferia nera de La terra dell'abbastanza ma è con l'inquietudine di Favolacce, vincitore di un Orso d'Argento a Berlino, che si impongono definitivamente come uno degli sguardi più originali e senza filtri nel panorama del cinema italiano contemporaneo. Alla Festa del Cinema di Roma 2020 sono i protagonisti di un incontro scanzonato con il pubblico, in cui si raccontano, svelano i loro miti e le proprie passioni, e parlano dell'innato desiderio di spiare le vite degli altri. "Il cinema ci ha salvato la vita", spiegano e annunciano il loro prossimo film, "una storia d'amore, in cui scorrerà tanto sangue" e alla quale lavoreranno con la stessa paura di non sapere, che li ha accompagnati fino a qui: "Ci piace rimanere vergini".
La terra dell'abbastanza e Favolacce: due film speculari
Favolacce li ha portati alla ribalta della scena internazionale, se ne è parlato molto, critica e pubblico lo hanno apprezzato all'unanimità e pensare che era stato scritto molto tempo prima del loro esordio con La terra dell'abbastanza, che Fabio D'Innocenzo definisce "un film più meditabondo, sereno e calmo. Sapevamo benissimo di non doverlo riempire di orpelli, avevamo già consumato tutta la rabbia che anima Favolacce, uno 'svuotatoio' di tutto ciò che avevamo vissuto e in cui lo stile andava cercato nelle pieghe di una storia molto complicata da mettere in scena. Era un copione che poteva essere tutto o niente. Tantissimo era delegato alla messa in scena e tutto era fortemente legato all'atmosfera". Motivo per cui il lavoro maggiore è stato quello necessario a sintetizzare "la crasi tra l'ipnosi e lo stallo della provincia rappresentata nel film, di quel lasciarsi andare molto rancoroso". Girarlo dopo la Terra dell'abbastanza è stata probabilmente una fortuna, "come opera prima sarebbe stato un pasticcio. All'epoca non avevamo girato neanche un corto, non sapevamo nulla di come si stesse su un set".
"È sempre la storia che ti dice come raccontare un film, e Favolacce aveva bisogno di essere raccontato in modo scanzonato, forse a volte anche un po' grossolano, in maiuscolo, mentre La terra dell'abbastanza è un film in minuscolo su dei quadri piccolissimi", aggiunge Damiano D'Innocenzo.
La giusta distanza
Tanta passione ma soprattutto uno stile inconfondibile e una persistente lontananza nello sguardo che si poggia sui personaggi e le storie. Una giusta distanza che non è una scelta casuale, come racconta Fabio commentando la sequenza di Favolacce in cui durante una cena in giardino uno dei bambini rischia di soffocare: "Quella scena ci fa sempre ridere molto. Siamo stati quei bambini, e vederla da lontano era divertente. Ma avevamo già previsto tutto in sceneggiatura, doveva essere ripreso tutto da lontano come fosse un presepe. Siamo formiche, viste da lontano siamo ancora più atroci". Doveva essere la scena di apertura, durava quattrodici minuti, "alla fine la girammo con due camere contemporaneamente, la spezzammo internamente e la inserimmo in un altro momento, in un contesto narrativo già avviato".
Gli piace definirsi "spettatori" anche ora che il cinema lo fanno: "Facciamo film per poter pagare il biglietto e andare al cinema", dicono. Un merito però se lo riconoscono: "saper far recitare bene gli attori. A volte devi farti da parte e lasciare che gli attori da soli portino avanti la scena. Ci vuole il pudore di non chiedergli nulla, in genere diamo pochissime indicazioni", confessa Damiano. E quando gli interpreti sono dei bambini, come nel caso di Favolacce, l'importante è mettersi alla loro altezza. È per questo che sul set hanno rinunciato all'idea di avere un acting coach: "Spesso è un intermediario che serve a rassicurare i genitori e a insegnare ai bambini delle filastrocche, cose scolastiche. Noi ci siamo opposti, non volevamo filtri nel nostro rapporto con loro, né intermediari che instradassero gli attori verso la tensione emotiva e le sfumature del film. - precisa - Non hanno mai letto la sceneggiatura, gli dicevamo quello che dovevamo girare giorno per giorno, ma loro avevano già capito tutto il marcio che c'era in fondo alla storia. Ci siamo alzati al loro livello, avere un filtro con loro è un depotenziamento per un regista".
La passione per il cinema e l'influenza dei grandi maestri
Del cinema altrui gli piace il fatto che "sia scoperta", come lo è Taxi Driver di Martin Scorsese per Fabio, "per la capacità di farti sentire così vicino al protagonista", e Il posto di Ermanno Olmi per Damiano, "un cinema fatto di volti, tenerezza e suspense".
"Da ragazzi vedevamo film in Vhs, una volta registrammo la finale di Francia-Brasile del '98 su Natale a Casa Cupiello. - ricordano - Ma il primo film visto in sala è stato Space jam. Quello che ci ha cambiato la vita invece e che ci ha aperto al cinema è I ragazzi della 56° strada. È di una semplicità enorme, lo abbiamo visto talmente tante volte che ormai è nostro", scherzano.
Il film in cui gli piacerebbe vivere? Per Fabio è La vita di Adele, "un film di grande romanticismo e fragilità", per Damiano senza dubbio Lost in Translation - L'amore tradotto: "Vorrei stare in quelle vite così immobili e silenziose, prendere l'ascensore con Bill Murray di giorno e Scarlett Johansson di notte. Rimarrei lì per sempre".