Dispatches from Elsewhere, recensione: la realtà è un gioco su Amazon Prime Video

La recensione di Dispatches from Elsewhere, serie creata e interpretata da Jason Segel e disponibile su Amazon Prime Video.

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Dispatches from Elsewhere: una scena della serie

Fa un certo effetto scrivere la recensione di Dispatches from Elsewhere sapendo che la serie debutta in Italia - su Amazon Prime Video, come altre recenti produzioni andate in onda su AMC negli Stati Uniti - il 15 giugno, giorno ufficiale della riapertura dei cinema nel nostro paese. Una curiosa coincidenza cosmica (tema su cui la serie stessa gioca più di una volta), poiché la prima mondiale dei primi due episodi ha avuto luogo al cinema, per l'esattezza in una delle sale di quell'importante kermesse cinematografica che è la Berlinale, che dal 2015 ha un'apposita sezione dedicata alle produzioni per il piccolo schermo (e proprio con la AMC ha un rapporto privilegiato sin dall'annata inaugurale, avendo portato nella capitale tedesca i due capitoli inaugurali di Better Call Saul. Un puro caso, che però si sposa bene con il contenuto dello show ideato, scritto e interpretato da Jason Segel, il cui messaggio, in non piccola parte, ruota attorno al concetto del ritrovarsi con gli altri e creare una comunità. Anche se in questo caso il concetto è decisamente poco ortodosso. N.B. La recensione, priva di spoiler, si basa sulla visione integrale dei dieci episodi della serie.

Una stramba storia vera

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Dispatches from Elsewhere: Sally Field e Richard E. Grant

L'ispirazione per Dispatches from Elsewhere viene da un documentario del 2013, The Institute, che ricostruisce la storia del fantomatico Jejune Institute, oggetto di un gioco interattivo nel mondo reale che coinvolse 10.000 partecipanti nella città di San Francisco, reclutati tramite bizzarri volantini. La serie si svolge invece a Filadelfia, dove l'Istituto è diretto dal misterioso Octavio (Richard E. Grant), la cui onniscienza si estende alle sue interazioni dirette con lo spettatore, all'inizio e alla fine della maggior parte degli episodi. Tramite lui facciamo la conoscenza di Peter (Jason Segel), che lavora per un servizio di streaming ed è insoddisfatto della propria vita. Un giorno si imbatte in un curioso volantino ed entra in contatto con la cosiddetta Elsewhere Society, la quale gli assegna degli incarichi che lui deve portare a termine con tre complici: Janice (Sally Field), Simone (Eve Lindley) e Fredwynn (André Benjamin). Insieme ritroveranno qualcosa che credevano di aver perso, ma non senza porsi delle domande circa le intenzioni dell'Istituto e il modo in cui sta manipolando la realtà.

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Realtà seriale

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Dispatches from Elsewhere: una foto di scena

Autore e protagonista, Jason Segel ostenta qui una certa maturità artistica, firmando come regista il primo episodio e dando così allo show la sua identità estetica, verosimile ma non troppo, ai confini della realtà (in senso letterale e non come allusione al titolo italiano della serie ideata da Rod Serling). Adattando un bizzarro evento reale, l'attore e sceneggiatore si allontana dalle proprie radici comiche (anche se le risate non mancano) per ideare qualcosa di più ambizioso e complesso, con idee accattivanti e il giusto spazio per esprimerle, attraverso una storia espansiva ma al contempo contenuta, che non richiede stagioni aggiuntive: la sequenza finale è accompagnata dalla scritta "The End", e lo stesso Segel ha affermato che un'eventuale prosecuzione richiederebbe un format antologico. Presumibilmente senza la sua partecipazione davanti alla macchina da presa, dopo che in questa sede egli ha dimostrato di avere notevoli doti drammatiche, come membro di un quartetto che incarna al meglio la diversità televisiva di oggi, poiché racconta le vicende di determinate persone senza sottolineare in maniera didascalica la propria inclusività (vedi il personaggio di Simone, il cui essere transgender è menzionato solo nel terzultimo episodio). Un approccio che si sposa bene con la nozione di fondo della serie, che tra un inganno e l'altro rimane una storia molto umana, la cui morale è semplice ma potente: siamo un tutt'uno, e insieme siamo più forti.

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Dispatches from Elsewhere: Richard E. Grant in una scena

A colpire è anche l'impianto narrativo, che al di là di qualche inciampo nel finale, dove la componente autoreferenziale si fa un po' eccessiva, gioca sulla nozione stessa della serialità. Da quel punto di vista è affascinante anche la duplice scelta di trasmissione: lineare, un episodio alla settimana, in patria, e in modalità bingewatching in altri paesi. Questo dà un sapore particolare agli interventi direttamente in macchina di Octavio, il quale nel primo capitolo parla apertamente della natura del progetto, delle nostre abitudini di visione e delle convenzioni narrative che la serie cercherà di evitare (e come ogni showman che si rispetti, il misterioso magnate dà il via alla storia vera e propria schioccando le dita). E poi torna, regolarmente, alludendo al tempo che passa e al numero di episodi che mancano alla fine del racconto, espediente che a seconda di come si vede la serie ha un impatto leggermente diverso. Una tattica che in altri casi potrebbe risultare straniante, ma qui accresce quel senso di esperienza che va sottilmente oltre il reale, e nei momenti finali dà anche un elemento di grazia in più all'apparato emotivo di un progetto che a prima vista si presentava come un mero gioco intellettuale.

Conclusioni

Eccoci alla fine della recensione di Dispatches from Elsewhere, un prodotto ambizioso e affascinante che all'inizio si presenta come un semplice gioco teorico ma nel corso dei suoi dieci episodi mette a nudo una componente emotiva di non poco conto, unita a un bel messaggio umanista. Un'ottima prova di maturità artistica per Jason Segel.

Movieplayer.it
4.0/5
Voto medio
3.3/5

Perché ci piace

  • La premessa è divertente e ricca di sbocchi intriganti.
  • L'intero cast è coinvolgente.
  • Richard E. Grant ruba la scena appena ne ha l'occasione.
  • La componente autoreferenziale è spassosa...

Cosa non va

  • ... Ma si fa un po' pesante nel finale.
  • Potrebbe essere troppo cervellotico per alcuni spettatori.